RECENSIONE ALLA BIOGRAFIA “PIERSANTI MATTARELLA : UN POLITICO CRISTIANO” GIOVANNI TESE’ AUTORE, LA MEDUSA EDITRICE.

Nel suo ultimo libro l’avv. Giovanni Tesè  ricostruisce la vita e l’opera politica di Piersanti Mattarella,  nato a Castellammare del Golfo il 24 maggio 1935  ed ucciso a Palermo la domenica di Epifania del 6 gennaio 1980.

L’autore descrive in successione l’ambiente familiare del politico siciliano, l’educazione cristiana ricevuta dai genitori, la sua adolescenza, la formazione nell’Azione Cattolica e le tappe salienti della sua attività politica. Seppur brevemente, ricostruisce anche i tratti essenziali di altre figure, come quelle di Piergiorgio Frassati, Pasquale Saraceno, Giorgio La Pira, Aldo Moro, che rappresentarono per il politico siciliano modelli di riferimento nella sua formazione umana e politica.

Piersanti Mattarella, divenuto avvocato, ma decisosi presto per l’impegno politico, in ciò stimolato certamente anche dalle esperienze politiche del padre Bernardo, ha dato alla sua vita politica, come più volte evidenzia l’autore, la caratterizzazione di un servizio alla comunità, prima come consigliere comunale nella città di Palermo, poi come deputato regionale, successivamente come assessore regionale alla Presidenza con delega al Bilancio ed infine come Presidente della Regione Siciliana, cariche tutte ricoperte come esponente della Democrazia cristiana.

Dalla biografia emerge il ritratto di un uomo libero e dinamico, di un dinamismo ispirato e mosso dalla fede cristiana e dalla traduzione di essa nell’alta idealità del bene comune. Leggendo questo agile testo, si è indotti a pensare che il politico siciliano ha incarnato il tipo umano di quegli uomini liberi e forti, a cui nel 1919, molti anni prima della sua esperienza politica, si era rivolto Don Luigi Sturzo con il suo famoso appello fondativo del Partito popolare italiano.

Piersanti Mattarella aveva un forte senso del dovere, il dovere, per esempio, di portare a compimento con senso di responsabilità il mandato di Presidente della Regione Siciliana; avrebbe potuto, infatti, lasciare questa carica prestigiosa ma gravosa, accettando l’offerta che gli fu fatta  nel giugno del 1979 da Benigno Zaccagnini, allora segretario nazionale della Dc, di candidarsi alla più comoda carica di deputato nazionale; egli preferì, invece, restare in Sicilia, e qui continuare la sua impegnativa azione politica di rinnovamento. Sul solco della concezione sturziana, secondo cui l’attività politica non può essere svolta senza preparazione, Piersanti Mattarella riteneva che, nell’impegno politico alla necessaria onestà delle intenzioni dovesse associarsi la competenza, che egli esigeva da sé stesso e chiedeva ai suoi collaboratori; credeva molto nel confronto, e a questo obiettivo fu funzionale il cosiddetto “Gruppo Politica”, un gruppo di elaborazione di idee e proposte politiche, creato da Mattarella innanzitutto come supporto alla sua attività politica, costituito  da  giovani maturi, accomunati dalla fede cristiana, aventi ruoli sociali diversi,  (professionisti, docenti, funzionari di enti locali) con cui, sin da quando fu eletto deputato regionale, si confrontava in relazione alle sue scelte politiche, traendone suggerimenti importanti. Questo gruppo, che oggi potremmo definire con terminologia contemporanea un think tank, ebbe una seconda importantissima funzione, quella di preparare alla politica i giovani, attraverso una scuola politica, che fu attivata in un periodo in cui i partiti politici, e fra essi anche la Dc, avevano iniziato a trascurare la formazione politica delle nuove generazioni.

Nel partito della Dc Piersanti Mattarella ebbe in Aldo Moro la sua guida politica e morale, come egli stesso ebbe modo di riconoscere, da Presidente della Regione Siciliana, nel discorso tenuto all’Assemblea regionale siciliana il 10 maggio 1978, all’indomani del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in Via Caetani a Roma.  

In questa pregevole biografia Giovanni Tesè ha voluto evidenziare come Piersanti Mattarella sia stato una figura straordinaria della politica siciliana, per le sue capacità di rinnovamento del metodo di far politica in Sicilia, messe in atto già da Assessore regionale alla Presidenza con delega al Bilancio, attraverso una concezione del bilancio regionale  come strumento di programmazione economica finalizzato ad attuare lo sviluppo della Sicilia, contrariamente ad una prassi precedente, ed oggi tuttora dominante, di un uso del bilancio regionale per elargire, in chiave elettoralistica, sovvenzioni, sussidi e contributi, senza una visione generale di crescita economica regionale. Piersanti Mattarella credette nell’autonomia regionale speciale come strumento di riscatto per la Sicilia, e, da Presidente della Regione Siciliana la sua azione di rinnovamento proseguì all’insegna della responsabilizzazione della burocrazia regionale e dell’affermazione del principio di legalità, come espresso efficacemente dalla formula da lui coniata di una  Sicilia “con le carte in regola”.   

Il politico siciliano aveva le potenzialità di un leader di caratura nazionale, stroncate dal suo assassinio, sui cui mandanti ed esecutori è ancora mistero fitto.

Come più volte sottolinea l’autore, Piersanti Mattarella è stato un politico vero che traeva la sua forza dalla fede cristiana, un testimone autentico del Vangelo nell’azione politica, una figura esemplare, che può costituire modello di riferimento soprattutto per le future generazioni. Durante i funerali svoltisi nella cattedrale di Palermo l’8 gennaio 1980 il Cardinale Salvatore Pappalardo affermò nella sua omelia che Piersanti Mattarella poteva ben attribuirsi, senza dovere arrossire, la duplice qualifica di  democratico e cristiano; interpretando queste parole del cardinale, risulta evidente il loro duplice significato; da un lato esse furono il primo riconoscimento pubblico, subito dopo la tragica morte, dell’autenticità di Piersanti Mattarella come democratico e come cristiano; dall’altro esse ebbero il senso di un richiamo “pastorale” ad altri che, nel rimprovero indiretto del cardinale, avrebbero invece dovuto arrossire, provare cioè disagio nell’attribuirsi le qualità di democratici e cristiani, non confermate dalla concretezza del loro operato nello svolgimento dell’azione politica. Sul solco dell’omelia del cardinale Pappalardo, Giovanni Tesè, associando la figura di Piersanti Mattarella  a quelle del Beato Rosario Angelo Livatino e del Beato padre Pino Puglisi, conclude la sua opera con un appello accorato alla Chiesa cattolica perché riconosca le virtù cristiane eroiche di Piersanti Mattarella e ne riconosca la santità di vita cristiana, manifestatasi soprattutto nell’azione politica.  

In conclusione, il libro di Giovanni Tesè costituisce un ulteriore prezioso contributo a rimettere in luce una storia politica che è per lo più ricordata dai mass media solo in relazione alla sua tragica conclusione, e che merita, invece, di essere ricordata nella sua interezza. Un libro che è adatto soprattutto alla lettura dei più giovani. Le caratteristiche di energia e dinamismo che erano presenti nel giovane Presidente della Regione Siciliana ne fanno infatti una figura attrattiva soprattutto per i giovani, i quali potranno trovarvi l’esempio di una politica alimentata da alti ideali; altrettanto attrattivo per i giovani e per i meno giovani, nel restituire al presente la personalità di Piersanti Mattarella, è il pathos narrativo di Giovanni Tesè, da cui traspare tutta la sua ammirazione per il giovane Presidente della Regione Siciliana tragicamente e prematuramente scomparso.    

Il presidente del Centro Studi De Gasperi di Sciacca

Avv. Stefano Antonio Scaduto

Continua a leggere

AGOSTO 2024: 70° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI ALCIDE DE GASPERI E 65° ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI DON LUIGI STURZO. L’ATTUALITA’ DEL LORO INSEGNAMENTO.

In questo mese di agosto 2024 ricorrono il 70° anniversario della morte di Alcide De Gasperi, morto il 19 agosto 1954  e il 65° anniversario della morte di Don Luigi Sturzo, morto l’8 agosto 1959.  Si tratta di due grandi della storia politica dell’Italia del Novecento, fortemente legati fra loro. De Gasperi infatti considerava Don Sturzo un maestro. Don Luigi Sturzo ed Alcide De Gasperi costituiscono due modelli di pensiero ed azione politica ed hanno ancor oggi una straordinaria attualità. Evidenzierò solo alcuni aspetti del loro ricchissimo lascito ideale, quelli che mi appaiono più significativi per il tempo presente.    

Don Luigi Sturzo è stato un sostenitore strenuo della libertà, di tutte le libertà, e,  nell’ambito della sua battaglia per le libertà, ha sostenuto l’autonomia degli enti locali, comprese le Regioni, nei confronti dello Stato accentratore. Sturzo è stato quindi un promotore dell’autonomia delle Regioni, laddove con tale autonomia le Regioni potessero rispondere meglio dello Stato ai bisogni dei territori regionali. Sturzo connetteva però al suo sostegno alle autonomie regionali il principio di responsabilità. Le Regioni che avessero ottenuto autonomia dallo Stato su un certo numero di materie dovevano, secondo Sturzo, finanziare da sé stesse, attraverso tributi propri regionali, l’esercizio delle competenze loro attribuite, tutto il contrario della legge  n. 86/2024 recentemente approvata dal Parlamento ( cosiddetta legge Calderoli) che, nel disciplinare l’attuazione della cosiddetta autonomia regionale differenziata, prevede invece che le Regioni, che otterranno l’autonomia differenziata, si finanzieranno con una compartecipazione al gettito di tributi statali maturatisi nel loro territorio. Laddove Sturzo sosteneva un’autonomia regionale responsabile, capace di assumersi su di sé i costi dell’autonomia, l’autonomismo del Governo Meloni, con in testa la Lega, è un autonomismo irresponsabile, con il quale si permette che le Regioni abbiano ulteriori competenze, ma con costi a carico delle finanze dello Stato. Nel quadro del suo pensiero autonomista Don Sturzo inoltre auspicava che si dovesse costituire un fondo perequativo nazionale, con il quale lo Stato avrebbe dovuto finanziare i territori regionali più deboli, svolgendo così un’azione volta ad eliminare le sperequazioni esistenti fra le varie Regioni italiane,  un fondo perequativo nazionale di cui non vi è traccia nella legge Calderoli sull’autonomia differenziata, benché il fondo perequativo nazionale sia espressamente previsto dall’art. 119 della Costituzione.  Ecco che allora il pensiero sulle autonomie regionali di Don Luigi Sturzo è un faro di luce per capire, per chi lo vuol capire, quanto profondamente ingiusta sia la legge sull’autonomia differenziata recentemente approvata, rispetto alla quale è stato proposto un referendum abrogativo totale.

Laddove l’autonomismo di Don Sturzo si integra con i principi di responsabilità e di solidarietà, l’autonomismo che emerge dalla cosiddetta legge Calderoli è un autonomismo irresponsabile, che risponde soltanto ad istanze di egoismo territoriale.

Venendo ora alla figura di Alcide De Gasperi, presidente del consiglio nel secondo dopoguerra,  credo che il principale aspetto della sua attualità stia nel fatto che De Gasperi ha incarnato, soprattutto nel biennio 1946-1947, il metodo della mediazione, come strumento di composizione dei conflitti politici nell’Italia uscita dalle ceneri della guerra e del fascismo. Gli anni 1946- 1947 furono anni difficilissimi per l’Italia e soprattutto in questo biennio De Gasperi mediò moltissimo con forze politiche radicalmente opposte alla Democrazia cristiana, in particolare con  i comunisti e con i socialisti, affinché tutte le forze politiche che avevano fatto parte del Comitato di Liberazione Nazionale potessero scrivere ed approvare insieme la Costituzione della neonata Repubblica. Fu certamente grazie alle sue grandi doti di paziente mediatore che l’Italia poté avere una Costituzione approvata a larghissima maggioranza, con il contributo fondamentale, oltre che della Dc, anche dei comunisti e dei socialisti, anch’essi capaci, al di là delle contrapposizioni ideologiche, di far prevalere il buon senso nella fase di redazione della Carta fondamentale, costitutiva del nuovo corso repubblicano.

Oggi il metodo della mediazione, così esemplarmente rappresentato da Alcide De Gasperi, è da tempo gravemente mancante nella politica italiana, soprattutto rispetto al varo di riforme di sistema, come quella sull’autonomia differenziata, e ancor più rispetto al tema delle riforme  costituzionali.

Da troppo tempo le proposte di riforma della Costituzione sono approvate in via unilaterale; l’attuale maggioranza di centro destra sta procedendo all’approvazione del cosiddetto Premierato, imponendo all’opposizione la sua riforma costituzionale; in passato una risicata maggioranza parlamentare, questa volta di centro sinistra, ha approvato nel 2001, da sola, la riforma del Titolo V della Costituzione; e nell’arco temporale che va dal 2001 ad oggi, altre proposte di riforma costituzionale, tentate unilateralmente prima da Berlusconi e poi da Renzi, sono state bocciate in sede di referendum popolari confermativi.

Gli esiti per lo più fallimentari e divisivi di tali tentativi unilaterali di riforma costituzionale ci fanno comprendere l’attualità della figura di De Gasperi, un’attualità che emerge in termini di mancanza nella politica italiana di quel metodo del paziente dialogo e di mediazione, di cui De Gasperi continua ad essere modello di riferimento e di cui oggi più che mai la politica italiana ha bisogno per approdare a riforme costituzionali ampiamente condivise.

Un altro aspetto di attualità del lascito di Alcide De Gasperi sta nella sua idea di Europa. De Gasperi è considerato un padre dell’Unione Europea, unitamente a Schuman e ad Adenauer. Il motivo che ispirava De Gasperi a farsi promotore di un’Europa unita era il desiderio di pace che egli voleva assicurare ai popoli europei dopo la fine del secondo conflitto mondiale, che aveva visto nazioni europee una contro l’altra. L’Europa unita doveva innanzitutto garantire la pace all’interno dei propri confini, ma anche farsi promotrice di pace all’esterno dei propri confini.

E’ in relazione a questi motivi ispiratori di pace, che De Gasperi, con Schuman e Adenauer, si fece promotore della costruzione di un esercito comune europeo. Eliminando  gli eserciti nazionali e sostituendoli con un esercito comune europeo, si sarebbe definitivamente evitato ogni possibile conflitto fra Stati europei, e si sarebbe data all’Europa unita una capacità militare orientata al mantenimento della pace anche all’esterno dei suoi confini. Il progetto di De Gasperi, Schuman ed Adenauer finalizzato alla costruzione di un esercito comune europeo  non andò in porto per la mancata approvazione da parte del Parlamento francese del Trattato istitutivo della Ced (Comunità europea di difesa). 

Dove sta l’attualità di De Gasperi nella sua idea di Europa rispetto all’Europa di oggi?

E’ ancora una volta un’attualità che emerge per mancanza, mancanza di quello che l’Unione europea dovrebbe essere e di come dovrebbe operare, per rispondere pienamente ai motivi ispiratori della sua fondazione.

Certamente l’Unione Europea ha realizzato uno dei sogni di De Gasperi, e degli altri padri fondatori, quello di garantire la pace all’interno dei suoi confini, il più lungo periodo di pace che la storia di Europa conosca. Ma per De Gasperi l’Europa doveva essere anche promotrice di pace nel mondo. Purtroppo l’attuale politica dell’Unione Europea, soprattutto in relazione ai conflitti russo-ucraino e a quello medio orientale, ha dimostrato la mancanza finora di un’azione diplomatica europea finalizzata alla composizione dei due conflitti in corso. Rispetto al conflitto russo- ucraino si è verificato il paradosso che l’unico serio tentativo di azione diplomatica è stato svolto dal primo ministro turco Erdogan, nella totale assenza di un’azione analoga da parte delle istituzioni europee. E’ ragionevole pensare che De Gasperi non sarebbe contento di come l’Unione Europea svolge oggi la sua politica internazionale. E la sua attualità sta nel ricordare che l’idea che ha ispirato l’ Europa unita era innanzitutto un’idea di pace da promuovere anche all’esterno dei confini europei con una forte ed ampia azione diplomatica, di cui l’Unione Europea di oggi non è capace.

Ricordare l’Europa unita nella concezione che ne aveva  De Gasperi ha senso allora di urgente attualità e dovrebbe orientare chi oggi governa l’Europa a conformare la politica europea all’idea ispiratrice di pace da cui le istituzioni europee sono nate.  

In conclusione, tanto Alcide De Gasperi quanto Don Luigi Sturzo sono da menzionare unitamente per avere concepito la politica come fondata sulla moralità. Per entrambi era inconcepibile una politica che non fosse fondata sui valori morali, un insegnamento questo attualissimo, ancora una volta per mancanza nello scenario politico italiano di oggi di una prassi politica fondata su tale presupposto di intima unione fra politica e morale. E’ invece assolutamente dominante in Italia, nello svolgersi dell’azione politica, il metodo di un machiavellismo spicciolo, ove il fine giustifica tutti i mezzi possibili, non importa se immorali, o addirittura illeciti. E concludendo davvero, leggendo gli scritti di Don Luigi Sturzo e i discorsi di Alcide De Gasperi, chiunque li legga con attenzione rimarrà stupito di quanta speranza essi emanino; Don Luigi Sturzo ed Alcide De Gasperi sono ancora oggi alimentatori di speranza, perché entrambi avevano capito da dove attingere la Speranza.                                              

Il presidente del Centro Studi De Gasperi di Sciacca

Avv. Stefano Antonio Scaduto  

Continua a leggere

IL PREMIERATO: RISCHI E PERICOLI PER LA DEMOCRAZIA ITALIANA.

Il disegno di legge costituzionale del Governo Meloni di introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio, cosiddetto Premierato, dopo essere stato parzialmente emendato dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato, è approdato all’aula del Senato ove è in fase di discussione.

Gli obiettivi dichiarati di tale riforma sono il voler impedire in futuro governi presieduti da “tecnici” pescati fuori dalla politica, conferendo ai cittadini il potere esclusivo di scelta del Premier, ed una maggiore stabilità dei governi, sulla base dell’investitura popolare diretta del Presidente del Consiglio. La frase più usata da Giorgia Meloni a sostegno del Premierato è questa: “diamo ai cittadini il potere di scegliere direttamente la persona da cui vogliono farsi governare”. Si tratta di un’ affermazione apparentemente convincente, ma che non risulta più tale se si riflette che essa non è preceduta dalla dichiarazione da parte di Giorgia Meloni di quello che dovrebbe essere l’obiettivo prioritario di un Governo che abbia a cuore il pieno rispetto della volontà popolare: ridare innanzitutto ai cittadini italiani la libertà di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento, mentre tuttora e da molto tempo essi ne sono privati da una legge elettorale a causa della quale gli eletti al Parlamento, in assenza dell’impossibilità per l’elettore di indicare una preferenza, sono in realtà dei “nominati”  dai capi partito, Giorgia Meloni compresa.

La prima fondamentale obiezione che dunque si può muovere all’obiettivo dichiarato dal Governo Meloni di far eleggere direttamente dai cittadini il Presidente del Consiglio è che esso non è stato  coniugato con la necessità prioritaria di restituire ai cittadini la libertà di scegliere realmente i propri rappresentanti in Parlamento. Ed è innanzitutto questo il primo motivo che dovrebbe indurre a dire no all’attuale disegno di legge di elezione diretta del Presidente del Consiglio; non se ne dovrebbe neppure discutere se prima non sarà restituita ai cittadini la libertà di scegliere realmente i loro rappresentanti in Parlamento, e cioè la libertà di scegliere coloro che sono chiamati, non solo ad approvare le leggi, ma anche a controllare l’operato del Presidente del Consiglio e del Governo nella sua interezza.

Già oggi, senza premierato, assistiamo ad un’ evidente e preoccupante subordinazione di tutti i parlamentari ai loro segretari di partito, Giorgia Meloni compresa, proprio a causa del fatto che essi sono eletti, non perché scelti dagli elettori, ma perché favoriti  dai loro capi- partito, attraverso una loro collocazione in posizione utile per essere eletti nell’ambito di liste bloccate. In tale contesto, l’eventuale approvazione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio, in assenza di una previa restituzione ai cittadini della libertà di eleggere realmente i parlamentari, determinerebbe un aumento enorme del potere del Presidente del Consiglio ed un ulteriore gravissimo indebolimento del Parlamento, con parlamentari schiavi non più solo dei loro rispettivi leaders ma tutti assoggettati alla volontà del Premier eletto, in considerazione del potere di quest’ultimo di obbligare il Presidente della Repubblica, in caso di crisi di governo, a sciogliere le Camere. Vi sarebbe così un Parlamento sotto il ricatto del Premier eletto dal popolo, con una assoluta mancanza di quell’equilibrato bilanciamento fra poteri, e segnatamente fra il potere legislativo ed il potere esecutivo, che costituisce una caratteristica fondamentale di una democrazia liberale e di uno Stato di diritto.

L’introduzione dell’elezione diretta del Capo del Governo, contrariamente alle dichiarazioni di Giorgia Meloni, determinerebbe anche una evidente riduzione dei poteri del Presidente della Repubblica. Qualora la riforma del Premierato fosse approvata, il Capo dello Stato  manterrebbe solo formalmente il potere di sciogliere le Camere, ma, come accennato, a condizionare l’esercizio di tale potere, in caso di crisi di governo, sarebbe il Presidente del Consiglio eletto dal popolo, che potrebbe obbligare il Presidente della Repubblica allo scioglimento delle Camere. Più in generale, si può facilmente prevedere che nel rapporto fra un Premier eletto dal popolo ed un Presidente della Repubblica eletto dal Parlamento, in caso di contrasti, il primo potrebbe subito rivendicare di avere un’investitura popolare diretta, con conseguente indebolimento del ruolo istituzionale del Presidente della Repubblica che, nel permanere di un rapporto conflittuale con il Premier eletto dal popolo, farebbe molta fatica a svolgere quel ruolo di garante dell’unità nazionale, formalmente immutato, ma che di fatto, con il Premierato, sarebbe sostanzialmente depotenziato.

Contro il parere di quasi tutti i costituzionalisti uditi nella prima Commissione Affari Costituzionali del Senato, il disegno di legge di elezione diretta del Presidente del Consiglio prevede l’introduzione in Costituzione di un riferimento vincolante sulle caratteristiche della futura legge elettorale; in particolare esso prevede che : “La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i princìpi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei ministri”.  

La previsione di un premio di maggioranza assegnato su base nazionale, come evidenziato in passato da studiosi di sistemi elettorali, e anche da autorevoli personalità politiche, primo fra tutti da Don Luigi Sturzo, costituisce un elemento distorsivo della rappresentatività dei singoli territori di collegio in cui è articolato ai fini elettorali il territorio nazionale. Infatti, il premio di maggioranza, assegnato su base nazionale, determinerebbe l’elezione di soggetti che, non avendo avuto consensi tali da determinarne in via normale l’elezione nel collegio di appartenenza, sarebbero eletti solo in forza del loro essere candidati nelle liste collegate al candidato Premier eletto. Ma il difetto più grave di tale disposizione, segnalato da molti costituzionalisti rimasti inascoltati, è la mancata prioritaria previsione di quale debba essere la soglia minima di voti, in termini percentuali rispetto al totale dei voti validi, che una coalizione deve conseguire per ottenere il premio di maggioranza su base nazionale fino al 55% dei seggi di Camera e Senato; ne consegue che, sulla base di tale disegno di riforma, una coalizione potrebbe ottenere il premio di maggioranza del 55% dei seggi di Camera e Senato sulla sola base del fatto di avere conseguito più voti rispetto alle altre, anche quando la soglia di voti conseguita fosse, in termini generali, bassa.  Solo per fare un esempio, una coalizione che avesse conseguito appena il 30% dei voti validi, purché risultasse la più votata fra tutte quelle partecipanti alle elezioni nazionali, potrebbe ottenere, in base al disegno di legge del Premierato, il 55% dei seggi nelle Camere, con un abnorme quasi raddoppio dei seggi che avrebbe conseguito in termini proporzionali, conseguente al suo collegamento con il Premier eletto dal popolo.

Un altro motivo per dire no al Premierato è costituito dai rischi connessi all’attuale quadro geopolitico. Viviamo in tempi di guerra, con due guerre vicine, la prima in Europa e la seconda nel Medioriente. Dal momento in cui la Russia ha invaso l’Ucraina fino ad oggi, i governi italiani succedutisi hanno compiuto la scelta di inviare armi a sostegno dell’Ucraina; quasi tutte le forze politiche che hanno condiviso tale scelta, hanno affermato a più riprese che l’Italia, pur sostenendo militarmente l’Ucraina, non è in guerra con la Russia né che sia pensabile che il nostro Paese invii propri soldati in Ucraina. Tuttavia, da tempo il Segretario della Nato Stoltemberg, la Francia di Macron e i Paesi baltici premono perché tutti i Paesi che hanno fornito sostegno militare all’Ucraina mettano in conto la possibilità di inviare truppe sul campo. Rispetto ad un tale scenario in cui potrebbe essere chiesto all’Italia di inviare propri soldati a sostegno dell’Ucraina, l’approvazione del Premierato segnerebbe l’accentramento in capo al Premier eletto anche di ogni decisione al riguardo, con un totale assoggettamento del Parlamento alla volontà sul punto del Premier eletto; pertanto, l’estrema delicatezza dello scenario internazionale rappresenta un motivo ulteriore per dire no al Premierato, che accentrerebbe in capo ad una sola persona una decisione così grave e gravida di conseguenze imprevedibili per l’Italia. Meglio allora in tale contesto mantenere un assetto bilanciato di poteri in grado di garantire che decisioni così gravi vengano assunte con la partecipazione ed il coinvolgimento sostanziale del Parlamento.     

Si ritiene che bastino queste considerazioni per dire che il disegno di legge di riforma costituzionale del governo Meloni, finalizzato all’ elezione diretta del Presidente del Consiglio, così come concepito, è fonte di gravi rischi e pericoli per la democrazia italiana.

Sciacca, 1.06.2024                                 

Il presidente del Centro Studi De Gasperi 

 di Sciacca

 Avv. Stefano Antonio Scaduto  

Continua a leggere

Il  PONTE SULLO STRETTO: CONSIDERAZIONI SUL METODO DECISIONALE SCELTO DAL GOVERNO MELONI.

Da quanto si è insediato il Governo Meloni, il segretario della Lega Matteo Salvini ha spinto per il varo del disegno di legge Calderoli di attuazione dell’autonomia regionale differenziata che, se fosse approvato, porrebbe la premessa per un ulteriore grave aumento dei divari territoriali fra  Regioni del Nord e Regioni del Sud. Contemporaneamente, nella sua qualità di ministro alle infrastrutture Matteo Salvini ha individuato nel Ponte sullo Stretto la priorità infrastrutturale per il Paese coinvolgendo l’intero Governo Meloni nella scelta di realizzare l’opera. Infatti, con l’emanazione del decreto-legge n. 35/2023, poi convertito con modificazioni nella legge n. 58/2023,  il governo Meloni ha riavviato l’iter per la realizzazione dell’opera e di una serie di infrastrutture correlate dal costo complessivo stimato in 14,6 miliardi di euro.

Ma il Ponte sullo Stretto è una vera priorità per il Paese?

E soprattutto il Ponte sullo Stretto è una priorità per la Sicilia e la Calabria direttamente interessate all’opera?

Con riguardo a questo secondo interrogativo, che si ritiene più importante del primo, si deve prendere atto con stupore che il Governo Meloni non ha minimamente coinvolto le Regioni Sicilia e Calabria rispetto alla decisione di realizzare il Ponte; eppure, da un propugnatore dell’autonomia regionale come Matteo Salvini sarebbe stato lecito aspettarsi che tale decisione fosse presa dal Governo nazionale solo in presenza di un’iniziativa comune, in favore del Ponte, delle Giunte regionali di Sicilia e Calabria, previe deliberazioni concordi dei rispettivi Consigli regionali, o, meglio ancora, sulla base di esiti favorevoli alla realizzazione del Ponte di referendum popolari consultivi dei cittadini siciliani e calabresi. Invece, in alcun modo l’autonomista Salvini ha pensato di coinvolgere le Regioni Sicilia e Calabria, né i presidenti di Sicilia e Calabria si sono a loro volta attivati per chiedere al Governo nazionale un coinvolgimento attivo delle due Regioni nel processo decisionale. Particolarmente grave è stata l’inerzia del presidente della Regione Siciliana che avrebbe dovuto obbligare Giorgia Meloni a convocarlo con diritto di voto nella seduta del Consiglio dei Ministri che ha deliberato il riavvio dell’iter per la costruzione del Ponte, atteso che l’art. 21, comma 3, dello Statuto speciale della Regione Siciliana prevede che il Presidente partecipa, con il rango di Ministro, al Consiglio dei Ministri, con voto deliberativo nelle materie che interessano la Regione. Il Ponte sullo stretto di Messina è certamente di interesse della Regione Siciliana, ma né l’autonomista on.le Salvini né il suo alleato on. Schifani presidente di una Regione ad autonomia speciale, e per di più coadiuvato fino a qualche giorno fa da un vicepresidente di Regione della Lega, si sono accorti del dovere del Governo nazionale, sancito dallo Statuto speciale della Sicilia, di coinvolgere la Regione Siciliana nell’iter decisionale.

Il metodo seguito dal Governo Meloni nel decidere di realizzare il Ponte è quindi viziato dal mancato coinvolgimento istituzionale delle Regioni Sicilia e Calabria con la conseguente mancata acquisizione del consenso politico all’opera da parte di siciliani e calabresi, quanto meno nelle forme delle deliberazioni dei rispettivi organi istituzionali di rappresentanza.

Ma se il coinvolgimento istituzionale della Sicilia e della Calabria nell’iter decisionale rappresentava per il Governo nazionale un dovere che non ha rispettato, sarebbe stato opportuno da parte del Governo Meloni andare anche oltre al predetto dovere minimo, e cioè subordinare la decisione di riattivare l’iter realizzativo del Ponte all’esito favorevole concorde di referendum popolari  consultivi dei cittadini siciliani e calabresi, sollecitando i presidenti delle due Regioni ad indire tali referendum regionali.

Il primo fondamentale motivo di opportunità per cui il Governo nazionale avrebbe dovuto subordinare la decisione di realizzare il Ponte all’esito concorde di referendum popolari nelle due Regioni direttamente interessate è conseguente alla questione non risolta se il Ponte sullo stretto sia ritenuto da siciliani e calabresi come opera prioritaria o se sia ritenuta per contro prioritaria un’ampia rete infrastrutturale composita, di natura viaria, autostradale, ferroviaria, portuale ed aeroportuale all’interno tanto della Sicilia quanto della Calabria; se si ponesse ai siciliani e calabresi l’alternativa su cosa vorrebbero che fossero spesi 14,6 miliardi di euro, se sul Ponte sullo stretto o su una rete infrastrutturale complessa che copra i loro  territori per intero, si ritiene che la maggioranza dei calabresi e dei siciliani sarebbe favorevole a questa seconda alternativa, che è la più ragionevole, a fronte del fatto che Sicilia e Calabria hanno gravi carenze infrastrutturali interne e la destinazione di 14,6 miliardi di euro anziché su una sola opera, ad una rete infrastrutturale più ampia determinerebbe per i territori regionali benefici meglio ripartiti. La risposta che appare più diffusa fra siciliani e calabresi è che, prima di fare il Ponte sarebbero necessarie all’interno delle due Regioni strade, autostrade, reti ferroviarie dignitose con tempi di percorrenza europei.

Il governo Meloni avrebbe fatto bene a subordinare la decisione di riavviare l’iter di realizzazione del Ponte all’esito concorde di referendum popolari favorevoli in Sicilia e Calabria anche perché solo l’eventuale esito favorevole di tali consultazioni popolari metterebbe la procedura realizzativa del Ponte al riparo da un cambio dell’indirizzo politico nazionale. La travagliata vicenda del Ponte sullo stretto si è infatti caratterizzata per un continuo cambiamento di decisioni se realizzarlo o meno, conseguente al mutamento del colore politico del Governo nazionale. Solo per fare un esempio, nell’ottobre 2005 il terzo governo Berlusconi decise di realizzarlo ed aveva avviato la complessa procedura. Il successivo governo Prodi fece marcia indietro. Se in futuro al Governo Meloni succedesse un Governo di centro- sinistra, è possibile che si ripeta un recesso dalla procedura con il rischio di ulteriori costosi oneri per lo Stato. L’unico modo per evitare che la decisione di realizzare il Ponte sia soggetta a continui ripensamenti conseguenti al cambio di colore politico del Governo nazionale era ed è quello di subordinare la decisione all’esito favorevole concorde di referendum popolari da svolgersi in Sicilia e Calabria.

Sottoporre a referendum popolari la decisione sul Ponte sarebbe stato, ma potrebbe tuttora essere, un atto di saggezza e di coraggio; si svilupperebbe sul tema un dibattito aperto fra favorevoli e contrari, e si vedrebbe in definitiva qual è la vera volontà dei siciliani e dei calabresi, se sia quella di destinare 14,6 miliardi di euro alla realizzazione del Ponte sullo stretto, o se sia quella, che appare più probabile, di destinare la stessa somma alla realizzazione di una più ampia e composita rete infrastrutturale su tutto il territorio della Sicilia e della Calabria. E tali referendum popolari sarebbero anche uno strumento importante per rivitalizzare la partecipazione democratica in due Regioni gravemente segnate dall’astensionismo elettorale e da una diffusa sfiducia nella politica e nelle istituzioni.

Sciacca, 22 aprile 2024                  

Il presidente del Centro Studi De Gasperi di Sciacca

 Avv. Stefano Antonio Scaduto        

Continua a leggere

LA PROTESTA DEGLI AGRICOLTORI FRA CRISI IN ITALIA DELLE ORGANIZZAZIONI DI CATEGORIA E LA CRISI DI RAPPRESENTANZA DELL’UNIONE EUROPEA E DEI GOVERNI NAZIONALI.

La protesta degli agricoltori, cominciata in gennaio in Germania, si è poi allargata a macchia d’olio al resto d’Europa, fino ad arrivare in Italia, e tuttora continua. In Italia, a differenza che in altri Paesi europei in cui è stata subito guidata dalle organizzazioni agricole, la protesta si è caratterizzata per uno spiccato spontaneismo degli agricoltori ed il disagio delle storiche organizzazioni di categoria, incapaci di assumerne la guida ed accusate dai movimenti di agricoltori autoconvocatisi di non avere tutelato gli interessi del mondo agricolo. Esiste dunque in Italia una crisi di rappresentanza delle storiche organizzazioni di categoria del mondo agricolo.

Con riguardo ai contenuti della protesta, esiste una piattaforma comune a tutti gli agricoltori europei contro la politica comunitaria agricola in materia ambientale alla quale si associano richieste  specificamente rivolte ai singoli governi nazionali. La base comune di tutte le rivendicazioni è la carenza di reddito dei piccoli agricoltori, costretti a sostenere in molti casi costi di produzione superiori ai ricavi della vendita dei loro prodotti.  

Esaminando ora le principali questioni poste dalla contestazione, gli organi di informazione nazionali hanno riportato, come prima questione, l’opposizione degli agricoltori alla decisione dell’ Unione europea di ridurre l’uso dei fitofarmaci del 55% entro il 2030, finalizzata a ridurre le emissioni di Co2 dannose all’ambiente. Si ritiene però che la questione posta dagli agricoltori sia stata rappresentata dagli organi d’informazione in modo incompleto. In realtà la richiesta di non ridurre l’uso di fitofarmaci, in mancanza dei quali la produzione agricola  sarebbe inferiore con ulteriore riduzione del loro reddito, va interpretata in connessione con la contestazione all’Unione Europea di consentire l’ingresso nei mercati europei di prodotti agricoli extracomunitari, ai quali non si richiede il rispetto degli stessi standards ambientali di produzione imposti agli agricoltori europei;  l’ingresso di tali prodotti, a minor costo di produzione e minor costo finale, riduce il reddito degli agricoltori europei. Pertanto, in alternativa alla cancellazione del Piano europeo di riduzione dei fitofarmaci,  gli agricoltori hanno proposto alle istituzioni europee di applicare ai prodotti agricoli extracomunitari condizioni e restrizioni al loro ingresso nell’Unione Europea, consistenti nel rispetto dei medesimi vincoli ambientali che vengono imposti alle loro coltivazioni.

Di fronte alla protesta degli agricoltori, per i vincoli ambientali applicati solo ai loro prodotti, e non anche ai prodotti agricoli extracomunitari, la Presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha assunto l’impegno di ritirare il Piano europeo di dimezzamento dell’uso dei fitofarmaci entro il 2030, una promessa condizionata dalle imminenti elezioni europee. Ma alla questione l’Unione europea potrebbe dare una risposta più giusta, quella di imporre  i medesimi vincoli ambientali di coltivazione a tutti i prodotti agricoli extracomunitari, imponendo un dazio ambientale per tutti i prodotti extraUe  non conformi a tali vincoli ; così facendo l’Unione europea riuscirebbe a contemperare la difesa del reddito degli agricoltori europei con la tutela dell’ambiente e della salute a tavola dei cittadini europei.

Nell’ambito della protesta è stata forte la contestazione contro l’ammissione in sede comunitaria delle farine di insetti, già autorizzata anche in Italia,  e contro la messa in vendita della carne sintetica, che in Italia è stata vietata. Scopo di tale contestazione non è solo la difesa del reddito degli agricoltori e degli allevatori, ma anche della tradizione alimentare europea, soprattutto contro l’idea preoccupante di consentire la commercializzazione di carne prodotta in laboratorio. Su questi aspetti le istituzioni europee non hanno finora assunto impegni precisi.

Un’altra contestazione degli agricoltori riguardo alla politica ambientale comunitaria ha riguardato il vincolo di non uso del 4% della superficie dei terreni, finalizzato a favorire la rigenerazione dei terreni. Rispetto a tale questione, gli agricoltori hanno ottenuto dalla Presidente della Commissione europea una promessa: la sospensione per un anno dell’applicazione del vincolo; gli agricoltori però insistono per la totale eliminazione del vincolo, considerato un intollerabile limite alla proprietà agricola privata e causa di una ulteriore riduzione del reddito.

Ma la questione più importante fra quelle poste dalla protesta è l’enorme differenza fra il prezzo di vendita dei prodotti agricoli che viene percepito dagli agricoltori ed il loro prezzo finale di vendita ai consumatori, a causa sia della lunghezza della cosiddetta  filiera, e ancor più a causa del potere contrattuale delle imprese della grande distribuzione che da un lato fissano al ribasso i prezzi di acquisto dai produttori e dall’altro, vendendo a prezzi finali di gran lunga superiori, ricavano enormi profitti sulle spalle del mondo agricolo.

Finora solo la Francia si è occupata seriamente, a partire dal 2018, del problema della regolamentazione della filiera alimentare, varando su iniziativa del Governo tre leggi, note come leggi Egalim, per contenere il potere della grande distribuzione alimentare sugli agricoltori francesi e permettere una giusta remunerazione dei produttori.

Con lo scopo di consentire ai produttori di ottenere un reddito dignitoso, la legge francese nota come “Egalim 2” ha invertito il modo in cui vengono fissati i prezzi: i contratti e i relativi prezzi vengono proposti dagli agricoltori, tenendo conto dei costi di produzione, mentre negli altri Paesi è la  GDO (Grande Distribuzione Organizzata) a fissare a monte i prezzi. Inoltre, la normativa francese ha istituito un meccanismo di revisione automatica del prezzo che tiene conto dei cambiamenti del mercato e dei costi sostenuti dagli agricoltori. Dal primo marzo 2023, il parlamento francese ha integrato ulteriormente la legislazione con la terza legge Egalim, che prevede sanzioni per i distributori che esercitano pressioniindebite sugli agricoltori nel corso delle trattative commerciali per stabilire i prezzi.

Le leggi Egalim  concepite per garantire una più equa distribuzione del valore a favore di produttori vengono però eluse dai distributori. Alcune catene di supermercati francesi acquistano le loro forniture attraverso centrali d’acquisto straniere, in modo da eludere le leggi Egalim e rafforzare il loro potere contrattuale nei confronti dei produttori. Tale elusione determina un abbassamento dei prezzi di vendita degli agricoltori. Proprio per rimediare a questi meccanismi di elusione Macron ha già proposto al Commissario europeo al Mercato interno l’estensione su tutta l’Unione Europea delle leggi Egalim, nel silenzio degli altri governi nazionali, compreso quello italiano.

Per affrontare l’enorme squilibrio fra la Grande Distribuzione Organizzata e gli agricoltori il Governo Italiano dovrebbe assecondare in sede europea l’iniziativa del Governo Francese di estendere su scala europea le citate leggi Egalim, ma nel frattempo il Governo Meloni potrebbe già agire a livello nazionale  promuovendo una legge che, sul modello della legislazione francese, possa contenere a tutela degli agricoltori italiani il potere in Italia della grande distribuzione organizzata. Finora il Governo Meloni, dopo la protesta dei trattori, si limitato a cambiare la sua decisione, assunta con la legge di bilancio 2023 per il 2024, di non esentare i redditi agricoli dalle imposte sul reddito, reintroducendo nel decreto Mille proroghe l’esenzione totale per i redditi agricoli fino a 10.000 euro e la riduzione dell’Irpef al 50% per la quota di reddito agricolo fra i 10.000,00 e i 15.000,00 euro. Per gli agricoltori italiani, tali misure sono state poco più che un pannicello caldo. E’ mancata e manca del tutto nel governo Meloni un’idea di politica agricola nazionale e di come influire in modo innovativo sulla politica agricola comunitaria. Ma tali lacune sono ravvisabili anche nelle forze di opposizione, il che denota un profondo distacco di tutti gli attuali partiti politici dalle problematiche del mondo agricolo italiano, da ritenersi tanto più grave quanto più si avvicinano  le elezioni europee di giugno 2024, considerato che quasi 1/3 del bilancio complessivo dell’Unione Europea è dedicato alla politica agricola comunitaria (cosiddetta PAC), e sarebbe pertanto necessario che i partiti e i loro candidati al Parlamento europeo avessero  idee  su come migliorare la politica agricola comunitaria.

Rimanendo sul tema della PAc, una importante questione di cui la protesta degli agricoltori non si è occupata a sufficienza è quella dei criteri di erogazione agli agricoltori dei fondi comunitari destinati all’agricoltura.

I fondi vengono erogati in base all’estensione per ettari delle terre disponibili, sicché questo primo criterio favorisce le grandi imprese agricole che peraltro possono usufruire di economie di scala, e possono con più facilità assolvere agli oneri burocratici per l’accesso ai fondi.  Il sussidiodi base avviene in base al numero ed al valore dei cosiddetti titoli, il cui numero corrisponde alla quantità di ettari ( un titolo per ogni ettaro); il valore di ogni titolo in Italia è stato ricalcolato nel 2023 dall’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (Agea),  fino ad un tetto di 2 mila euro per ogni titolo, e secondo stime statistiche il valore medio nazionale  di ogni titolo per ettaro è pari a 167 euro per ettaro. Esiste  peraltro in Italia  una differenziazione nel valore dei titoli fra aree agrarie e regionali, con un loro minor valore nelle aree meridionali. Gli indicati criteri di erogazione dei sussidi comunitari di base dovrebbero essere modificati a beneficio della piccola e media impresa agricola, rendendo decrescente il valore dei titoli quanto più aumenta il numero di ettari disponibili, ed aumentando il valore dei titoli per la piccola e media impresa per sostenerla di più in rapporto alle grandi imprese agricole che godono di economie di scala. Anche il tema della revisione dei criteri di erogazione degli aiuti comunitari all’agricoltura, in parte gestito a livello nazionale con riferimento al valore dei titoli, dovrebbe pertanto entrare nella piattaforma rivendicativa degli agricoltori italiani, al fine di riequilibrare secondo equità e giustizia un sistema di aiuti oggi molto sbilanciato in favore delle grandi imprese agricole ed in danno della piccola e media impresa agricola.

Sciacca, 29.02.2024     il presidente del Centro Studi De Gasperi con sede in Sciacca

          Avv. Stefano Antonio Scaduto 

Continua a leggere

Riflessioni sul divieto alla stampa di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare previsto dal disegno di  legge delega di recepimento delle direttive europee approvato alla Camera, in discussione al Senato- Legge di delegazione europea 2022-2023.

La Camera ha approvato il 19 dicembre scorso il disegno di legge delega che fissa al Governo i principi ed i criteri direttivi per dare attuazione agli atti normativi dell’Unione Europea più recenti,  quelli dell’ultimo biennio, come si evince dal titolo del ddl  “Legge di delegazione europea 2022-2023”. Ma, con un emendamento al testo originario del ddl presentato dal deputato di Azione Enrico Costa, fra gli atti normativi europei cui dare compiuta attuazione è stata inserita anche la direttiva n.343 del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. Infatti, l’art. 4 del ddl prevede che,”al fine di garantire l’integrale e compiuto adeguamento alla predetta direttiva, il Governo dovrà emanare uno o più decreti legislativi attenendosi al seguente criterio direttivo: modificare l’articolo 114 del codice di procedura penale prevedendo il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare, in coerenza con quanto disposto dagli articoli 3 e 4 della direttiva.” Va detto innanzitutto che tale presunto adeguamento alla predetta direttiva del 9 marzo 2016   avverrebbe con notevole ritardo, considerato che l’art. 14 della stessa prevede che il termine finale per il suo recepimento  era il 1° aprile 2018. Ma se, a questa prima osservazione i sostenitori del divieto alla stampa di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare possono replicare con un “ meglio tardi che mai” si può controbattere che non siamo di fronte ad un ritardo, bensì al fatto che, tanto i Governi succedutisi dal 2016 ad oggi, quanto i due rami del Parlamento, chiamati ad approvare il disegno di legge delega che ogni anno il Governo è tenuto a presentare alle Camere per dare attuazione alle direttive europee, hanno ritenuto che nessuna disposizione della direttiva imponga o anche solo autorizzi il divieto agli organi d’informazione di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. Leggendo il testo della direttiva in questione, sia nella sua premessa dei “considerando,” che nei suoi articoli, risulta evidente che essa, non è rivolta alla stampa ma ha come destinatari la  magistratura e le forze dell’ordine dei singoli Stati membri.

Il considerando n. 16 afferma che : “La presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata”

Il considerando n. 17 chiarisce che: “Per «dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche» dovrebbe intendersi qualsiasi dichiarazione riconducibile a un reato e proveniente da un’autorità coinvolta nel procedimento penale che ha ad oggetto tale reato, quali le autorità giudiziarie, di polizia e altre autorità preposte all’applicazione della legge, o da un’altra autorità pubblica, quali ministri e altri funzionari pubblici…”

Il considerando n 19 auspica che : “Gli Stati membri dovrebbero adottare le misure necessarie per garantire che, nel fornire informazioni ai media, le autorità pubbliche non presentino gli indagati o imputati come colpevoli, fino a quando la loro colpevolezza non sia stata legalmente provata. A tal fine, gli Stati membri dovrebbero informare le autorità pubbliche dell’importanza di rispettare la presunzione di innocenza nel fornire o divulgare informazioni ai media, fatto salvo il diritto nazionale a tutela della libertà di stampa e dei media”

Ancora più chiaramente l’art. 4 della direttiva statuisce che:” Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole” . Da quanto precede emerge che la direttiva  è volta ad evitare che le autorità pubbliche, quindi le autorità giudiziarie, i rappresentanti delle forze dell’ordine, o un’altra autorità pubblica, quali ministri e altri funzionari pubblici possano, in dichiarazioni pubbliche da esse rilasciate o in decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza, presentare l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata”. In alcun modo può quindi affermarsi che la direttiva in questione imponga o anche solo autorizzi il divieto agli organi d’informazione di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. Essa ha  come destinatarie ultime delle sue prescrizioni le autorità pubbliche, e non sono tali gli organi d’informazione, della carta stampata, on line e dell’emittenza radio televisiva. Ne consegue che è una forzatura il criterio direttivo previsto all’art. 4 del ddl approvato alla Camera che impegna il Governo a prevedere il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare, al fine dichiarato di garantire l’integrale e compiuto adeguamento alla direttiva europea n.343 del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza. A ben vedere, tale direttiva non contiene prescrizioni nei confronti della stampa.

Inoltre, l’ introduzione di tale divieto sarebbe incostituzionale perché contraria al diritto- dovere dei giornalisti di informare sulle motivazioni di decisioni giudiziarie sulla libertà personale, anche a tutela degli stessi indagati rispetto a decisioni prive di solida  motivazione, al diritto dei cittadini di essere informati sulle ragioni di tali decisioni al fine di un ampio controllo pubblico sull’esercizio del potere giudiziario, nonché, quando destinatari di misure cautelari siano soggetti detentori di un potere pubblico, di comprendere  a maggior ragione i motivi della privazione di libertà personale per la rilevanza pubblica degli indagati. Non appare ragionevole introdurre il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare, nell’immediatezza del provvedimento, affermando che comunque la pubblicazione è solamente rinviata  al momento di conclusione delle indagini preliminari ovvero al termine dell’udienza preliminare. Su un’ordinanza di custodia cautelare è necessaria un’informazione completa e puntuale nell’immediatezza della sua efficacia. Si pensi ad un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del Presidente di una Regione, adottata quando mancano parecchi mesi alla scadenza del termine di durata delle indagini. Si potrebbe lasciare un’intera comunità regionale all’oscuro, per mesi, sui motivi che hanno determinato la privazione della libertà personale del suo Presidente democraticamente eletto? Ovvio che no. Ne consegue che il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare sarebbe di per sé irragionevole ed incostituzionale.

La questione alla base dell’irragionevole idea di introdurre il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare nell’immediatezza della sua efficacia è semmai un’altra. Nel pubblicare il testo dell’ordinanza, un organo d’informazione oggi può dare la notizia con una coloritura, un’enfasi ed un clamore tali da far percepire  all’opinione pubblica come già colpevole il soggetto indagato colpito dalla misura cautelare, e l’indagato, alla diffusione della notizia, può percepire su di sé un preventivo giudizio di condanna sommaria. Questo problema reale che certamente pone la necessità di tutelare la presunzione d’innocenza fino alla condanna definitiva, può essere risolto, anziché con un divieto, con una prescrizione normativa sulla modalità di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare, e cioè imponendo al giornalista e all’organo d’informazione di associare alla pubblicazione l’avvertenza al lettore che l’ordinanza di custodia cautelare non costituisce una sentenza di condanna, e che il soggetto che ne è destinatario è da presumersi innocente fino a che non sia condannato con sentenza definitiva.

Sciacca, 30.12.2023                il presidente del Centro Studi De Gasperi con sede in Sciacca

  Avv. Stefano Antonio Scaduto

Continua a leggere

La riforma nel 2001 del Titolo V della Costituzione: i suoi effetti negativi a venti anni di distanza, in particolare sulla Sanità. Il disegno di attuazione del regionalismo differenziato: le ulteriori conseguenze negative in generale, ed in particolare sulla Sanità.

Premessa.

La presentazione alle Camere del disegno di legge di attuazione del regionalismo differenziato introdotto dalla riforma costituzionale nel 2001  del Titolo V della Costituzione, rimasto finora inattuato.

Il governo Meloni ha presentato al Senato il disegno di legge, promosso dal ministro per gli Affari Regionali Calderoli, di attuazione del regionalismo cosiddetto differenziato previsto dall’art. 116, comma 3° della Costituzione, norma introdotta con la legge costituzionale n. 3/2001, nota come riforma  del titolo V della parte seconda della Costituzione.

Prima di esaminare tale disegno di legge, e di chiarire in che cosa consista il cosiddetto regionalismo differenziato, è opportuno una disamina di carattere generale della riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione, approvata nel 2001 da una risicata maggioranza parlamentare di centro sinistra che sosteneva il governo presieduto da Giuliano Amato. La riforma, non essendo stata approvata dai 2/3 dei componenti delle Camere, fu sottoposta a referendum confermativo, all’esito del quale in data 7 ottobre 2001, con una partecipazione di appena il 34,10 % degli aventi diritto al voto, ed il voto favorevole del 64,20% dei votanti, venne confermata.

I contenuti della riforma del titolo V della Costituzione che hanno già avuto esecuzione.

E’ opinione condivisa che la riforma del Titolo V della Costituzione rappresenti il passaggio da una Repubblica unitaria caratterizzata da un decentramento di tipo prevalentemente amministrativo, ad una Repubblica cosiddetta delle autonomie; la riforma del 2001 ha riconosciuto piena soggettività politica agli enti territoriali, (Regioni, province e Comuni) che prima erano considerati solo parzialmente autonomi, dipendendo in larga parte dal punto di vista  finanziario dai trasferimenti statali, ed ha introdotto una nuova categoria di ente territoriale: le Città metropolitane.

L’aspetto più rilevante della riforma ha riguardato una nuova ripartizione della funzione legislativa fra Stato e Regioni a statuto ordinario (vedi l’art. 117 della Costituzione) con l’attribuzione allo Stato e alle Regioni a statuto ordinario di una potestà legislativa concorrente su un’ampia gamma di materie, fra cui sanità ed istruzione, in cui il criterio di riparto consiste nell’attribuzione allo Stato della definizione con legge dei principi fondamentali, ed il conferimento alle Regioni della effettiva disciplina normativa di tali materie con leggi regionali, nel quadro della cornice dei principi fondamentali fissati dallo Stato; inoltre, allo Stato è stata attribuita una potestà legislativa esclusiva su materie tassativamente elencate, fra le quali la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, mentre alle Regioni a statuto ordinario è stata conferita una potestà legislativa esclusiva di tipo residuale su tutte quelle materie su cui non è stata espressamente assegnata o ripartita la competenza fra Stato e Regioni.

Dalla distribuzione della potestà legislativa operata dalla riforma del Titolo V della Costituzione,  consegue che nel nuovo ordinamento istituzionale la potestà legislativa più ampia appartiene, nei singoli territori regionali, alle Regioni.

A completare e a dare effettività a tale nuovo ordinamento policentrico della Repubblica  è il riformato articolo 119 della Costituzione  che ha conferito ai Comuni, province, citta metropolitane e alle Regioni, autonomia finanziaria di entrata e di spesa, con attribuzione della potestà di applicare tributi ed entrate propri, nonché di essere compartecipi al gettito di tributi erariali dovuti nel loro territorio. Tale compartecipazione rappresenta nell’ambito della riforma costituzionale del 2001 un’attuazione del c.d. federalismo fiscale tanto caro alla Lega Nord, che per anni ha combattuto contro il trasferimento di risorse dalle regioni del Nord alle regioni del Sud, attuato soprattutto con lo strumento della Cassa per il Mezzogiorno, stigmatizzando la Roma “ladrona”, simbolo, nella narrazione leghista soprattutto degli anni 90, del Governo centrale appropriatore  di risorse del nord e distributore delle stesse al sud; sin dai suoi albori la Lega ha sempre rivendicato che agli enti territoriali fosse riconosciuto, oltre al potere di istituire tributi propri, anche di trattenere sul proprio territorio una quota dei tributi erariali dovuti dai contribuenti residenti o aventi sede in quel territorio.

Fra le caratteristiche della riforma costituzionale del 2001 vi è la scomparsa del potere di cui era  titolare il Governo nazionale di valutare se una legge approvata da un Consiglio regionale  fosse contraria in termini di contenuto agli interessi nazionali o a quelli di altre Regioni, e, in caso di ritenuto contrasto, di rinviare la legge al Consiglio regionale per un nuovo esame, nonchè di provocare nel caso di una seconda approvazione della legge regionale, la questione di  merito del contrasto della stessa con gli interessi nazionali o di altre Regioni davanti alle Camere.

La riforma costituzionale del 2001 ha invece attributo al Governo nazionale un potere sostitutivo nei confronti degli enti territoriali, prevedendo all’art. 120, comma 2°, della Costituzione che: “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”.

L’eliminazione in Costituzione della Questione Meridionale.

La riforma del 2001 segna inoltre l’abbandono politico nella sede normativa più alta del nostro ordinamento, qual è la Costituzione della Repubblica,  di quella questione meridionale che i padri costituenti del 1948 avevano ritenuto di fondamentale importanza. Ne sono prova l’eliminazione nell’art. 119 della Costituzione del riferimento al “ Mezzogiorno” che era ivi citato, unitamente alle “Isole” e la conseguente abolizione della norma che prevedeva l’assegnazione di risorse da parte dello Stato alle singole Regioni del Mezzogiorno e alle Isole, ai fini della loro valorizzazione, realizzando scopi determinati. All’abbandono anche in sede costituzionale del Mezzogiorno ha corrisposto la previsione, nel nuovo terzo comma dell’art. 119, di un fondo perequativo, da istituirsi per legge, a beneficio, senza vincoli di destinazione, dei territori con minore capacità fiscale, in tal modo allargando i possibili beneficiari di tale fondo perequativo anche a singoli territori del centro e del Nord, stante la citata eliminazione della delimitazione geografica al “ Mezzogiorno e alle “Isole”  dei possibili destinatari dei fondi speciali precedenti, consentiti dalla Costituzione del 1948.

Senza alcun dubbio, sul piano politico, la riforma costituzionale del 2001, benché sia stata approvata da una maggioranza parlamentare di centro-sinistra, ha segnato la vittoria delle istanze politiche della Lega Nord. Volendo trovare un senso al perché una riforma tanto propugnata da una forza politica che nel 2001 era all’opposizione, essa sia stata invece approvata su impulso di una maggioranza parlamentare di orientamento opposto, si può ipotizzare che lo scopo perseguito dai suoi promotori politici, e fra questi in primo luogo il Presidente del Consiglio Amato e Veltroni, segretario a quel tempo dei democratici di sinistra, fosse  quello di svuotare in favore del centro-sinistra il bacino di consenso di cui, proprio sulla base delle istanze autonomiste e federaliste recepite con tale riforma, godeva la Lega nelle regioni del Nord, ovvero, in alternativa, quello di attrarre la Lega in un’alleanza politica con il centro-sinistra alle elezioni politiche, immediatamente successive all’approvazione parlamentare della riforma.    

Se tali erano gli scopi “politici” perseguiti dagli ispiratori di tale riforma costituzionale risulta evidente che  tale disegno politico  non ha conseguito nessuno di tali obiettivi.  

Negativi, invece, appaiono a venti anni di distanza gli effetti che la riforma del Titolo V della Costituzione ha prodotto sull’Italia, sul senso dell’unità nazionale, anche a causa del contenzioso istituzionale sviluppatosi davanti alla Corte Costituzionale (soprattutto nei primi anni successivi al 2001) fra Stato e Regioni in sede di attuazione del nuovo riparto della potestà legislativa; ancor più negativi appaiono gli effetti di tale riforma  sul piano sociale, e soprattutto nelle Regioni del centro sud, per il venir meno di una tutela uniforme su tutto il territorio nazionale di fondamentali diritti individuali e sociali, fra i quali in primo luogo il diritto alla salute, nonché sulla efficace gestione di importanti servizi relativi alla tutela dei diritti civili e sociali, a cominciare da quello a più forte impatto sociale, quale è il Servizio Sanitario Nazionale.

Gli effetti della riforma del Titolo V della Costituzione sul diritto alla salute.

Concentrando ora l’attenzione sugli effetti che la riforma del Titolo V della Costituzione ha prodotto sulla tutela della salute, riconosciuto dall’art. 32 della Costituzione come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, si può affermare che, per effetto di tale riforma costituzionale, il Servizio Sanitario Nazionale è stato notevolmente indebolito a causa della competenza più ampia attribuita alle Regioni in materia di sanità, con conseguente rafforzamento, a scapito del Servizio Sanitario nazionale, dei 20 Servizi sanitari regionali, corrispondenti al numero delle Regioni d’Italia.   

Il Titolo V della Costituzione, prima della riforma del 2001, attribuiva alle Regioni a statuto ordinario la potestà legislativa concorrente limitatamente alla assistenza sanitaria ed ospedaliera, nel quadro dei principi fondamentali stabiliti con legge dello Stato. La potestà legislativa delle  Regioni non riguardava  quindi in toto la materia della “tutela della salute”, formula più ampia con cui la riforma del 2001 ha accresciuto la sfera di competenza della potestà legislativa delle Regioni in materia di sanità.  In particolare, della materia di “ assistenza sanitaria ed ospedaliera”  non facevano parte le funzioni di programmazione e di gestione della sanità, pur se un processo di regionalizzazione era stato introdotto già in precedenza da leggi ordinarie a costituzione invariata.

Per effetto della riforma del 2001, invece, anche le funzioni di programmazione organizzazione e di gestione della sanità in sede regionale, quelle che oggi vengono  comunemente definite  “governance”, sono stata assegnate alle Regioni, e il campo di competenza della legislazione statale è stato ristretto alla previsione dei principi fondamentali ed alla determinazione dei livelli essenziali di assistenza (cosiddetti Lea), in materia di prestazioni sanitarie.

La legittimazione costituzionale di diversi livelli di qualità delle prestazioni sanitarie nelle varie regioni d’Italia, con la salvaguardia da parte dello Stato di un’eguaglianza dei cittadini sul territorio nazionale limitata ai soli  livelli  essenziali, di base.

Peraltro, l’attribuzione allo Stato, con la riforma costituzionale del 2001, della potestà legislativa esclusiva rispetto alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, fra cui la sanità, ha legittimato a monte, al più alto livello normativo della Repubblica, la possibilità che esista una disuguaglianza nell’erogazione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, perché, nel garantire l’uniformità dei livelli essenziali, ha presupposto la possibilità di  livelli  diversi di qualità delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, e quindi la possibilità di diversi livelli di qualità delle prestazioni sanitarie nelle varie Regioni d’Italia,  ove la tutela dell’uniformità su tutto il territorio nazionale si ferma alla salvaguardia di una qualità minima avente il connotato dell’essenzialità di base.

L’attuazione del federalismo fiscale di cui al riformato Titolo V della Costituzione, l’intensificarsi di una regionalizzazione della sanità con  20 servizi sanitari regionali  aventi quantità differenti di risorse disponibili, ed il progressivo indebolimento  del Servizio Sanitario Nazionale. 

L’attuazione del federalismo fiscale è avvenuta lungo le seguenti direttrici di marcia: riduzione dei trasferimenti statali alle Regioni e agli altri enti territoriali; aumento progressivo della autonomia di entrata e di spesa delle Regioni e della compartecipazione delle stesse al gettito dei tributi nazionali, al fine di consentire alle Regioni il finanziamento delle più ampie funzioni e competenze loro assegnate dalla riforma del titolo V della Costituzione.

Il finanziamento della spesa  sanitaria nelle singole Regioni proviene dal gettito di entrate proprie regionali, delle addizionali regionali all’Irpef, dal ricavato dei tickets sanitari, da una compartecipazione al gettito dell’Iva. A tal riguardo, la compartecipazione delle Regioni ordinarie al gettito dell’Iva,  stabilita annualmente con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, è passata dalla misura del 38,55 per cento (così determinata per l’anno 2001) al 70,14 per cento per l’anno 2020 a seguito di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri Draghi.

Dalla compartecipazione delle singole Regioni al gettito Iva, vengono tolte annualmente alle Regioni più ricche  quote non predeterminate che finanziano un fondo perequativo, a beneficio di quelle Regioni, il cui gettito tributario complessivo è insufficiente a garantire il  finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, fra cui la spesa sanitaria, così da garantire i livelli essenziali delle prestazioni.

Come si può notare, il sistema di finanziamento della spesa sanitaria nelle singole Regioni è molto articolato e complesso, e con riguardo alle cosiddette quote perequative di cui beneficiano le Regioni il cui gettito tributario complessivo è insufficiente a finanziare i livelli essenziali di assistenza, si tratta di quote non fisse, ma variabili di anno in anno, sicché non esiste un quadro finanziario certo della perequazione.  

I principi cardine del sistema sanitario italiano, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione e dell’attuazione del federalismo fiscale.

L’impalcatura del sistema sanitario italiano si fonda sul fabbisogno sanitario nazionale standard che è l’ammontare delle risorse necessarie a garantire in tutte le Regioni i livelli essenziali di assistenza ed è il risultato della somma dei fabbisogni  sanitari regionali standard. La determinazione dei singoli fabbisogni sanitari regionali e di quello nazionale, seppure la relativa normativa affermi che la loro determinazione è finalizzata alla garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni sanitarie risulta però condizionata, con espressa previsione di legge, al rispetto dei vincoli di finanza pubblica e degli obblighi di ordine finanziario assunti dall’Italia a livello di Unione europea (rispetto del c.d. Patto di Stabilità), sicché certamente il quadro delle risorse finanziarie che ogni Governo ha deciso di volta in volta di individuare come tetto massimo, a copertura del fabbisogno sanitario nazionale standard, ha certamente condizionato poi la effettiva individuazione dei fabbisogni sanitari regionali standard che avviene di concerto fra Governo nazionale e governi regionali, abbassando nel corso del tempo, con la sola eccezione degli anni della crisi pandemica, l’ammontare di tali fabbisogni, ma non perché essi si siano ridotti rispetto ai bisogni sanitari delle popolazioni, ma a causa di un progressivo taglio dell’ammontare delle risorse pubbliche individuate a monte come tetto massimo da destinare alla Sanità nel suo insieme. 

Un altro elemento cardine del sistema sanitario nazionale è dato dai cosiddetti costi standard delle prestazioni e servizi sanitari, che concorrono a determinare i fabbisogni sanitari regionali e di risulta il fabbisogno sanitario nazionale, a monte già condizionati dai vincoli di finanza pubblica. La normativa al riguardo prevede, in sintesi, che i costi di prestazioni e servizi sanitari nelle singole Regioni (che determinano i fabbisogni sanitari regionali)  siano individuati con riferimento ai costi standard delle tre Regioni italiane, individuate dalla Conferenza Stato- Regioni come quelle che hanno saputo garantire meglio, rispetto a tutte le altre Regioni d’Italia, i livelli essenziali di assistenza, con prestazioni appropriate, e che siano al tempo stesso in equilibrio economico.

Tale sistema di individuazione dei fabbisogni sanitari di tutte le Regioni, parametrato sui costi standard delle tre Regioni d’Italia più efficienti ed in equilibrio economico, ha determinato un abbassamento forzato dei fabbisogni sanitari di quelle Regioni, che avevano in materia di sanità  una spesa storica più alta. Ma in linea di massina, tale abbassamento forzato  non ha reso tali Regioni più efficienti; al contrario il cambio di sistema le ha penalizzate, danneggiando di conseguenza i cittadini di tali Regioni, perché, a fronte di una riduzione in termini contabili dell’ammontare di risorse ritenuto a livello nazionale per esse necessario e sufficiente a garantire i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie, tali Regioni hanno continuato di fatto, data la rigidità dei bilanci pubblici, a sostenere  un livello di spesa sanitaria reale superiore ai costi standard  delle tre Regioni più efficienti, essendo quello dei costi standard un parametro contabile, che non poteva essere d’improvviso calato ed imposto dall’alto;  conseguentemente esse hanno spesso sforato, nella spesa reale, il modello dei fabbisogni sanitari standard  con conseguente inevitabile  disavanzo sanitario rispetto a quei fabbisogni forzatamente stabiliti per tutte le Regioni sul modello di tre.

Ma alla base del disavanzo sanitario di diverse regioni italiane, oltre a quanto sopra, vi è un’altra causa ancor più grave ed è rappresentata dai costi per le Regioni (i cui servizi sanitari non garantiscono prestazioni sanitarie appropriate rispetto a molte patologie)  del cosiddetto  diritto alla mobilità. Si tratta del “diritto dei  cittadini italiani ad essere assistiti in strutture sanitarie di Regioni differenti da quella di residenza, un diritto che si traduce nel cosiddetto fenomeno della mobilità sanitaria interregionale. Tecnicamente viene distinta in mobilità attiva (una voce di credito della Regione che identifica l’indice di attrazione) e mobilità passiva (una voce di debito che rappresenta l’indice di fuga da una Regione)”.[1] I servizi sanitari regionali che attraggono cittadini di altre Regioni per prestazioni sanitarie in strutture del loro territorio hanno diritto al rimborso dalla Regione di provenienza del costo delle prestazioni, il che ha determinato per un verso l’incremento di entrate per i servizi sanitari regionali qualitativamente migliori, e un incremento enorme di spese del bilancio sanitario delle Regioni da cui i residenti si trasferiscono in altre Regioni per l’effettuazione di cure e prestazioni. Secondo la fondazione Gimbe  “dall’analisi della mobilità attiva e passiva   emerge la forte capacità attrattiva delle Regioni del Nord, cui corrisponde quella estremamente limitata delle Regioni del Centro-Sud. In particolare, un recente report della Corte dei Conti ha documentato che nel decennio 2010- 2019 – corrispondente al riparto del Fondo Sanitario Nazionale per gli anni dal 2012 al 2021 – 13 Regioni, quasi tutte del Centro Sud, risultano essere le meno attrattive per i cittadini e hanno accumulato un saldo negativo pari a € 14 miliardi. (c.f.r pag.12 del Report Osservatorio GIMBE n. 1/2023 in https://www.gimbe.org/

Si possono allora comprendere le cause dei disavanzi sanitari di diverse Regioni italiane.

A decorrere dal 2007, le Regioni in stato di disavanzo sanitario sono sottoposte ad un Piano di riorganizzazione, riqualificazione e potenziamento del servizio sanitario regionale (c.d. Piano di rientro, introdotto normativamente per la prima volta con la legge finanziaria del 2004 per il 2005), il cui completamento è condizione per l’accesso a  risorse aggiuntive e di una  quota premiale del finanziamento del SSN.

L’esperienza de Piani di rientro, il cui scopo è quello sia  di ristabilire l’equilibrio economico- finanziario che di garantire l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza,  ha dimostrato che vi sono Regioni in permanente Piano di Rientro, come, solo per fare un esempio, la Sicilia, che ha iniziato il suo Piano di rientro nell’ormai lontano 2007  e  lo ha proseguito, senza soluzione di continuità, fino ad oggi, non intravedendosi peraltro anche nell’immediato futuro alcuna uscita da tale condizione, mentre altre regioni, come la Calabria, in aggiunta al Piano di rientro sono state sottoposte al Commissariamento; tali fatti dimostrano il fallimento, soprattutto per le Regioni del Sud, di tutta l’impalcatura del federalismo fiscale, con particolare riguardo al finanziamento dei servizi sanitari regionali. Basti pensare che delle 10 Regioni italiane che nel 2007 sono state sottoposte a Piano di rientro, 7 e tutte del centro-sud sono tuttora in Piano di rientro[2] e due sono commissariate; risulta pertanto evidente che uno strumento, come il Piano di rientro, concepito per avere una durata limitata nel tempo, è divenuto per diverse Regioni italiane uno strumento di permanente e pesante condizionamento sul piano economico-finanziario dei loro servizi sanitari.

Se questo è il quadro economico, il nuovo assetto della sanità, che è emerso dalla riforma costituzionale del 2001 in poi,  ha registrato un crescere delle disuguaglianze regionali con riguardo alla salvaguardia dei livelli essenziali di assistenza sanitaria, con un sostanziale fallimento della prerogativa che lo Stato ha riservato a sé, di garantire i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale.

In un suo report di analisi e valutazione relativo al mantenimento dei Livelli essenziali di assistenza nelle Regioni italiane, con riferimento all’arco temporale dal 2010 al 2019 la Fondazione indipendente GIMBE (Gruppo Italiano Medicina basata sull’evidenza) ha evidenziato, (peraltro sulla base dei dati tardivamente pubblicati dal Ministero della Salute per ciascuno degli anni dal 2010 al 2019 relativi alla valutazione del mantenimento dei LEA nelle Regioni italiane) il divario esistente fra le Regioni del Nord Italia e le Regioni del centro-sud rispetto all’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (cfr. Report Osservatorio Gimbe n.2/2022 dal titolo significativo: “ Livelli essenziali di assistenza: le diseguaglianze regionali in sanità” https://www.gimbe.org/). In particolare, nelle tabelle riportanti i punteggi conseguiti dalle Regioni in relazione al monitoraggio del Ministero della Salute sul mantenimento dei Livelli essenziali di assistenza, i risultati indicano che nessuna delle Regioni del sud occupa in tale “graduatoria” le prime dieci posizioni lungo il corso del decennio 2010-2019.

Il report della fondazione Gimbe evidenzia che, a fronte di un Servizio Sanitario Nazionale fondato sui principi di equità ed universalismo, l’Italia di oggi presenta inaccettabili diseguaglianze regionali.

Il disegno di legge di attuazione del regionalismo differenziato:  i suoi effetti generali definibili come un colpo di piccone all’unità nazionale, e i suoi effetti sulla sanità.   

Gli effetti negativi già prodotti dalla riforma costituzionale del 2001 potrebbero ulteriormente accrescersi con l’attuazione del regionalismo differenziato, anch’esso introdotto con la riforma del 2001 nel comma 3° dell’art. 116 della Costituzione, e rimasto finora inattuato. Tale norma prevede la possibilità di  attribuire con legge dello Stato alle Regioni ordinarie  “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” nelle materie attribuite dall’art. 117, comma 3° Cost. alla potestà legislativa concorrente,  (fra queste la sanità) nonché persino su alcune delle materie attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato dall’art. 117, comma 2°, e precisamente sulle materie dell’organizzazione della giustizia di pace, delle norme generali sull’istruzione, della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

La legge di attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia alle singole Regioni può essere approvata solo previa iniziativa da parte della singola Regione, interessata a ricevere ulteriore autonomia nelle materie indicate, ed è approvata dalla maggioranza assoluta dei componenti delle Camere, sulla base di un’intesa fra lo Stato e la Regione interessata.

Il Governo Meloni, ha presentato al Senato lo scorso 23 marzo 2023, attraverso il Ministro per gli affari regionali Calderoli che ne è il principale ispiratore, il disegno di legge n. 615/2023 contenente “le disposizioni di attuazione del regionalismo differenziato in attuazione dell’art. 116 comma 3, della Costituzione. Tale disegno di legge è stato presentato per essere discusso e approvato come allegato alla legge finanziaria del dicembre 2023, il che costituisce un’anomalia, considerato che di per sé tale disegno di legge non contiene disposizioni di natura finanziaria. Il ministro Calderoli o l’intero governo Meloni potrebbe avere scelto questa procedura, come espediente, per evitare il controllo di costituzionalità del Presidente della Repubblica in sede di eventuale promulgazione della legge approvata come allegato alla legge finanziaria. Infatti, sarebbe pressoché impossibile per il Presidente della repubblica rinviare tale legge alle camere, trattandosi di un allegato alla legge finanziaria, che una volta approvata, non  potrebbe essere  che immediatamente promulgata, a pena di incorrere nell’esercizio provvisorio.

La finalità di tale disegno di legge, secondo le dichiarazioni del Ministro Calderoli, è di dare attuazione in modo ordinato al percorso di attuazione del regionalismo differenziato di cui all’art. 116 comma 3° della Costituzione, disciplinando tutto il procedimento di trattative e di intesa fra lo Stato e la singola Regione per l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, nonché quella, sempre secondo le dichiarazioni del Ministro agli affari regionali, di coinvolgere attivamente il Parlamento nel percorso di preparazione e conclusione dell’intesa Stato- singola Regione interessata, e di successiva approvazione con legge.

In realtà, contrariamente alle dichiarazioni del Ministro, le norme del disegno di legge prevedono un ruolo marginale del Parlamento che si riduce alla facoltà da parte delle Commissioni parlamentari competenti sulle materie oggetto di ulteriore trasferimento di competenze dallo Stato alla Regione richiedente, di esprimere un mero atto di indirizzo sullo schema preliminare di intesa entro 60 giorni dalla trasmissione dello stesso alle Camere; il che significa che le Commissioni parlamentari competenti non possono dare parere negativo sull’intesa preliminare fra Stato e singola Regione, ma solo dare indicazioni non vincolanti per la stesura dell’intesa definitiva; peraltro, trattandosi di mera facoltà, in assenza di atto di indirizzo delle commissioni parlamentari competenti entro 60 giorni dalla ricezione della preintesa fra Governo e Regione, il procedimento va avanti e il Parlamento si limiterà ad approvare o meglio a ratificare con legge, senza alcuna possibilità di emendamenti, il testo dell’intesa definitiva, così come conclusa fra il Presidente del Consiglio dei ministri ed il Presidente della regione interessata. 

Come previsto dall’art. 116,comma 3° della Costituzione, possono essere attribuite alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni una, alcune, ma anche tutte le 23 materie attribuite, al momento, dall’art. 117 comma 3 della Costituzione alla potestà legislativa concorrente fra Stato e Regioni, nonché anche le materie dell’organizzazione della giustizia di pace, delle norme generali sull’istruzione, della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, attualmente oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato.

L’attuazione del regionalismo differenziato, detto anche asimmetrico, potrebbe dar vita ad un ordinamento del riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni totalmente disomogeneo, con lo Stato che potrebbe avere una potestà di legiferare estremamente variabile, quanto ad oggetto e materie, da Regione a Regione, mantenendo un nucleo limitato di materie riservate alla sua potestà legislativa esclusiva, e perdendo la potestà di determinare i principi fondamentali nell’ambito di singoli territori regionali rispetto ad alcune o a tutte le materie che sono state individuate dall’art. 116, comma 3°, come suscettibili di essere attribuite alla potestà  legislativa piena delle singole Regioni che richiedono ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Ne verrebbe fuori, come risultato, un quadro istituzionale alquanto confuso e disordinato, che determinerebbe un ulteriore grave indebolimento dell’unità nazionale, considerato che  base di una salda unità nazionale  dovrebbe essere il chiaro ed uniforme riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, potendosi ragionevolmente derogare ad un quadro uniforme di riparto di competenze fra Stato e Regioni, attraverso l’attribuzione di un’autonomia speciale ad un numero limitato di Regioni, proprio come fecero i padri costituenti nel 1948; alle cinque regioni alle quali nel 1948 furono concessi statuti speciali, approvati con leggi costituzionali, l’autonomia speciale, differenziata rispetto a tutte le altre Regioni, fu concessa per ragioni storiche, geografiche, di tutela di minoranze linguistiche, ossia per ragioni davvero speciali, mentre la prospettiva del regionalismo differenziato di cui all’art. 116, comma 3, della Costituzione come approvato nel 2001, nel caso di una sua attuazione, è quella di attribuire autonomia speciale ad ognuna di tutte le 20 regioni italiane, di fatto vanificando la sussistenza stessa, come categoria concettualmente significativa, degli storici statuti speciali delle 5 Regioni d’Italia, cui fu attribuita nel 1948 l’autonomia speciale.

A proposito delle 5 Regioni storicamente a Statuto speciale (Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige e Val d’Aosta), un articolo del disegno di legge Calderoli di attuazione del regionalismo differenziato prevede che ad esse si applichi  l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, che prevede che anche le regioni a statuto speciale possano, sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, chiedere anch’esse la conclusione di intese con lo Stato, per l’attribuzione alle stesse di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia nelle materie indicate nell’art. 116, comma 3° della costituzione; ne consegue che le Regioni a statuto speciale potrebbero avere una potestà legislativa in parte determinata dagli statuti speciali, approvati con leggi costituzionali, ed in parte una potestà legislativa su ulteriori materie, sulla base di leggi approvate, previa intesa con lo Stato, con la maggioranza assoluta dei componenti delle Camere, non aventi però il rango delle leggi costituzionali (anche questa una stonatura di tutta la riforma costituzionale del 2001 ed un ulteriore colpo potenziale all’unità nazionale). 

L’attuazione del regionalismo differenziato prefigurata dal disegno di legge Calderoli si caratterizza per la sua precarietà nel tempo; vi si prevede infatti che l’intesa fra stato e Regione per l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, nelle materie individuate dall’art. 116, comma 3°, della Costituzione, debba avere una durata non superiore a 10 anni (potendo essere di durata inferiore); inoltre l’intesa è modificabile, prima della  scadenza in essa fissata, mediante lo stesso procedimento che ne ha portato all’approvazione con legge, ampliando o diminuendo l’ambito dell’autonomia della singola Regione; si prevede altresì che ciascuna intesa preveda i casi e le modalità con cui lo Stato o la Regione possono chiedere, anche prima della sua scadenza, la cessazione della sua efficacia, da  deliberarsi con legge approvata dalla maggioranza assoluta dei componenti le Camere. Il disegno di legge prevede ancora che alla scadenza della durata prevista dell’intesa (come visto non superiore a 10 anni) essa, nel silenzio reciproco Stato-Regione, venga prorogata della stessa durata, salvo diversa volontà dello Stato o della Regione manifestata almeno 12 mesi prima della scadenza.

Risulta allora evidente che il disegno di legge Calderoli intende conferire alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui all’art. 116, comma 3°, della Costituzione, i connotati della temporaneità, della modificabilità ampliativa o riduttiva, con la possibilità di una cessazione prima della scadenza, con  prorogabilità alla scadenza salvo recesso, quasi che le competenze legislative fossero oggetto di un comodato, o di un appalto, con tutte le conseguenti incertezze che derivano da tale precarietà, e risultando tristemente evidente che il motivo di fondo alla base di tali caratteristiche è dare la possibilità alle Regioni, che abbiano chiesto ed ottenuto ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, di valutare se, alla prova dei fatti, la maggiore autonomia ricevuta sia stata per esse conveniente, utile, con riferimento al territorio delle singole regioni, secondo una logica di egoismo territoriale; in tal modo, se durante gli anni di attuazione le singole Regioni ritenessero che la maggiore autonomia richiesta e conseguita non convenga sul piano economico, esse hanno la possibilità di chiederne la sua cessazione durante la sua efficacia, ovvero di modificare l’intesa alla scadenza secondo nuove convenienze di tipo territoriale regionale, ovvero di recedere con un preavviso di 12 mesi, dall’intesa stessa, in quest’ultimo caso secondo uno schema normativo tipico dei contratti di locazione commerciale, che rappresenta un fatto assolutamente inedito e abnorme rispetto al rapporto fra istituzioni.               

Il modo con cui il disegno di legge Calderoli presentato al Senato della Repubblica intende attuare il regionalismo differenziato di cui all’art. 116, comma 3, della costituzione, è quello di “ ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” a tempo, continuamente rinegoziabili, ampliabili o riducibili, financo cessabili molto prima del termine finale della loro durata pattuita, o da cui si può recedere, previa disdetta da comunicarsi 12 mesi prima della scadenza prevista, il tutto secondo una logica di convenienza egoistico-territoriale delle singole Regioni.

Sono pertanto pienamente condivisibili le considerazioni negative sul progetto di legge Calderoli del politologo Ernesto Galli della Loggia, che sulle colonne del Corriere della Sera ha affermato in modo netto che “ il progetto di legge Calderoli costituisce un formidabile colpo di piccone contro ciò che ancora sopravvive del nostro Stato e dell’unità della nazione”[3].    

Il nodo delle risorse e l’inattendibilità della norma dell’art. 8 del disegno di legge Calderoli sulla invarianza finanziaria delle risorse destinate alle Regioni che non chiederanno ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia.

Il trasferimento alle Regioni di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia nelle materie di cui all’art. 116 comma 3, della Costituzione richiede la necessità di un loro finanziamento. Al riguardo il disegno di legge Calderoli prevede non che le Regioni provvedano da sé con nuovi tributi in sede territoriale a finanziare tali nuove attribuzioni di competenze, ma che il finanziamento avvenga mediante compartecipazione al gettito di tributi erariali maturatisi nel singolo territorio regionale, e tale compartecipazione, si badi bene, può essere diversa da Regione a Regione, a seconda della quantità e qualità delle ulteriori materie attribuite, mediante intesa approvata con legge, alle singole Regioni. Non a caso, il disegno di legge Calderoli prevede che la determinazione della quota di compartecipazione della singola Regione al gettito di tributi erariali dovuti nel suo territorio avverrà a cura di una Commissione paritetica fra rappresentanti dello Stato e della singola Regione, e sarà fissata in ciascuna delle singole intese fra Stato e Regioni. Tale compartecipazione al gettito di tributi erariali, da parte delle singole Regioni che avranno ottenuto la maggiore autonomia di cui all’art. 116, comma 3, della Costituzione, ridurrà  inevitabilmente, in termini di quantità di risorse disponibili, il bilancio dello Stato, e la possibilità da parte dello Stato di distribuire  risorse in un’ottica perequativa alle Regioni che non avranno voluto chiedere la maggiore autonomia del cosiddetto regionalismo differenziato. Sul punto, il disegno di legge Calderoli prevede una norma con cui si afferma una garanzia di invarianza finanziaria delle risorse a beneficio delle Regioni che non avranno voluto ampliare la propria autonomia. Si tratta di una dichiarazione di principio, che però contrasta con la nuda realtà dei fatti. La riduzione quantitativa delle risorse in entrata per lo Stato, determinerà inevitabilmente una minore capacità dello Stato stesso di distribuire risorse alle altre Regioni, e ai relativi enti locali, sicché la norma sulla invarianza finanziaria appare inattendibile in quanto contrastante con le inevitabili conseguenze di ordine finanziario derivanti per lo Stato dall’attuazione del regionalismo differenziato, come previsto dal progetto di legge Calderoli.

Gli effetti dell’attuazione del regionalismo differenziato sulla tutela del diritto alla salute. I rischi di un ulteriore peggioramento delle disuguaglianze regionali in materia di sanità, con colpo di grazia definitivo sul Servizio sanitario nazionale.

Nel suo Report Osservatorio n.1/2023 dal titolo “ Il regionalismo differenziato in sanità” la Fondazione Gimbe ha messo bene in evidenza che il disegno di legge Calderoli di attuazione del regionalismo differenziato rappresenterebbe il colpo di grazia di quel che resta del Servizio Sanitario Nazionale. Il fatto che, già dall’ottobre del 2017, le prime Regioni ad avviare le trattative con il Governo nazionale ( a quel tempo Governo Gentiloni) per l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, anche in materia di sanità, siano state  le tre Regioni con le migliori prestazioni sanitarie a livello nazionale, (ossia l’Emilia-Romagna, la Lombardia ed il Veneto) rappresenta un campanello d’allarme rispetto al rischio di un ulteriore peggioramento del livello delle diseguaglianze regionali in materia di tutela del diritto alla salute dei cittadini italiani. Vogliono sempre più far da sole in materia di sanità le Regioni che già funzionano meglio delle altre, negoziando per sé stesse con lo Stato l’attribuzione non sole di maggiore autonomia in materia di sanità ma anche di maggiori risorse statali, atteso che il disegno di legge Calderoli di attuazione del regionalismo differenziato prevede, come già chiarito, che il finanziamento di tale maggiore autonomia, avvenga con la compartecipazione delle singole Regioni, che l’avranno ottenuta, al gettito di tributi erariali maturatisi nel loro territorio, con inevitabile diminuzione  di entrate nel bilancio statale, e ridotta possibilità per lo Stato, in un’ottica distributiva, di garantire finanziariamente i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie, nelle altre Regioni più povere, soprattutto del centro-sud.               

Dal testo dei tre accordi preliminari conclusi nel febbraio 2018 rispettivamente da Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, con lo Stato italiano, rappresentato dal Governo Gentiloni, ai fini dell’attribuzione a ciascuna di tal regioni di ulteriore forme e condizioni particolari di autonomia in alcune o tutte ( è il caso del Veneto) le materie indicate dall’art. 116, comma 3, della costituzione, si evince, per quanto riguarda la materia della sanità, rispetto alla quale tutte e tre le regioni citate chiedono maggiore autonomia, che esse chiedono, fra l’altro:

  • di non essere sottoposte ai vincoli del tetto di spesa stabiliti dalla normativa statale per il personale sanitario;
  • che vogliono regolare da sé  l’accesso alle scuole di specializzazione;
  •  che vogliono avere l’autonomia di stipulare contratti di specializzazione-lavoro con medici specializzandi, in modo da fronteggiare la carenza di personale sanitario;
  •  maggiore autonomia nelle funzioni relative al sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione alle spese sanitarie dei cittadini, limitatamente agli assistiti residenti nella Regione;
  •  maggiore autonomia nella definizione del sistema di governance delle aziende e degli enti del SSN;
  • avere competenza a programmare gli interventi sul patrimonio edilizio e tecnologico del SSN nell’ambito dei rispettivi territori regionale;
  • Maggiore autonomia legislativa, amministrativa e organizzativa in materia di istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi.

Il Veneto chiede anche Maggiore autonomia in materia di gestione del personale del SSN, inclusa la regolamentazione dell’attività libero-professionale e la facoltà, in sede di contrattazione integrativa collettiva, di prevedere per i dipendenti del SSN incentivi e misure di sostegno, anche avvalendosi di risorse aggiuntive regionali.

Sulla scorta delle ulteriori condizioni di autonomia richieste in materia di sanità, dalle Regioni Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, di cui quelle sopra indicate costituiscono un elenco non esaustivo, la fondazione Gimbe ha ritenuto  nel suo Report n. 1/2023 con considerazioni pienamente condivisibili che  l’attuazione  delle maggiori autonomie richieste dalle Regioni con le migliori performance sanitarie amplificherebbe le diseguaglianze di un SSN, oggi universalistico ed equo solo sulla carta e i cui  princìpi fondanti  si sono già dissolti senza alcun ricorso all’autonomia differenziata, ma solo in ragione della competenza regionale concorrente in tema di tutela della salute, già determinata dalla riforma del Titolo V della Costituzione, approvata nel 2001. Il regionalismo differenziato, se attuato in materia di sanità, finirebbe per legittimare normativamente e in maniera irreversibile il divario tra Nord e Sud, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute.

CONCLUSIONI DI SINTESI.

La riforma del Titolo V della Costituzione approvata nel 2001 da una maggioranza politica di centro-sinistra è stata una pessima riforma, avendo causato un indebolimento dell’unità nazionale, attraverso un rafforzamento eccessivo del ruolo delle Regioni nei confronti dello Stato, nonché per avere garantito il principio di uguaglianza dei cittadini italiani rispetto alla fruizione di diritti civili e sociali, solo in relazione ad una soglia minima di base, legittimando oltre quella soglia, una diseguaglianza delle prestazioni concernenti tali diritti. In materia di diritto alla salute, la riforma costituzionale, ampliando la competenza delle Regioni a tutta “la tutela della salute” ha posto le premesse per una progressiva regionalizzazione della sanità e l’affermarsi di diversi livelli qualitativi delle prestazioni sanitarie fra Regione e Regione, senza che lo Stato sia riuscito a svolgere efficacemente la funzione di salvaguardia dei livelli essenziali di assistenza,  che lo stesso avrebbe dovuto e dovrebbe garantire in modo uniforme ai cittadini italiani su tutto il territorio nazionale. Il sistema sanitario italiano è quindi caratterizzato da notevoli diseguaglianze regionali, con un forte divario fra le Regioni del nord e le regioni del centro-sud, sicché il Servizio Sanitario nazionale ha perso i suoi connotati di equità ed universalismo, già per effetto della riforma del Titolo V della Costituzione.

L’attuazione del cosiddetto regionalismo differenziato, previsto anch’esso dalla riforma costituzionale del 2001, mediante l’approvazione del comma 3° dell’art. 116 della Costituzione, consistente nell’attribuzione con legge alle singole Regioni, e sulla base di intese fra lo stato e le singole Regioni  di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in alcune o tutte le materie che al momento costituiscono oggetto di una potestà legislativa concorrente fra Stato e Regioni (fra cui la sanità ) nonché sulle materie dell’organizzazione della giustizia di pace, delle norme generali sull’istruzione, della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, attualmente oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato, costituirebbe un colpo di piccone all’unità nazionale, determinando un quadro dei rapporti istituzionali fra Stato e Regioni disordinato e confuso, in quanto sarebbe disomogeneo e potenzialmente variabile da regione a regione il  riparto della potestà legislativa fra Stato e Regione nei vari territori delle singole Regioni. Tutte le 20 Regioni italiane potrebbero tutte godere di un’autonomia speciale, contrariamente all’indirizzo dei padri costituenti del 1948 che avevano attribuito l’autonomia speciale a sole 5 Regioni, in virtù di specifiche ragioni storiche, geografiche, di tutela di minoranze linguistiche.

Il disegno di legge Calderoli contenente disposizioni di attuazione del regionalismo differenziato di cui all’art. 116, comma 3, della Costituzione, intende attuare il regionalismo differenziato con caratteristiche di temporaneità delle intese fra  Stato e singole Regioni, di rinegoziabilità delle stesse con possibilità di ulteriore ampliamento o riduzione della sfera di maggiore autonomia inizialmente pattuita, con possibilità   financo di cessazione della maggiore autonomia pattuita molto prima della scadenza del  termine finale dell’intesa,  di recedibilità dalle intese, previa disdetta da comunicarsi 12 mesi prima della scadenza prevista, il tutto secondo una logica di convenienza egoistico-territoriale delle singole Regioni. L’eventuale approvazione del progetto di legge Calderoli costituirebbe un ulteriore colpo di piccone all’unità nazionale, rendendo il riparto della potestà legislativa e delle competenze fra Stato e Regioni non solo disomogeneo fra Stato e singole Regioni, il che è una caratteristica di per sé del regionalismo differenziato, ma anche soggetto a continue variazioni nel tempo, rendendo il quadro dei rapporti istituzionali fra Stato e singole Regioni caotico, incerto e confuso.

In materia di sanità, l’attuazione del regionalismo differenziato   amplificherebbe le diseguaglianze regionali nella erogazione delle prestazioni a tutela del diritto alla salute, finirebbe per legittimare normativamente e in maniera irreversibile il divario di qualità del servizio sanitario tra regioni del Nord e regioni del centro- Sud, con ulteriore colpo al Servizio sanitario nazionale, con compromissione del principio di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute, già fortemente indebolito dalla riforma nel 2001 del Titolo V della Costituzione.

Sciacca, 3.11.2023            

            il presidente del Centro Studi De Gasperi 

             Con sede in Sciacca

           Avv. Stefano Antonio Scaduto 


[1]  La definizione del diritto dei cittadini italiani alla mobilità sanitaria interregionale è tratta dal Report Osservatorio GIMBE n. 1/2023.

[2]  Si tratta delle seguenti Regioni: Lazio,  Abruzzo, Campania, Molise, Sicilia,  Calabria, Puglia, di cui due, Molise e Calabria sono anche sottoposte a commissariamento.

[3] Editoriale dal titolo “ Lo Stato, l’autonomia, le Regioni e il bilancio da fare” di Ernesto Galli Della Loggia in Corriere della Sera del 23 maggio 2023.

Continua a leggere

RIFLESSIONI SULLA PROPOSTA DEL GOVERNO MELONI, SU INIZIATIVA DEL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA NORDIO, DI  ABROGARE L’ABUSO D’UFFICIO.

Dopo la recente riforma del 2020 del reato d’abuso d’ufficio previsto dall’art. 323 del codice penale, che ha limitato fortemente la sfera applicativa del reato, nella legislatura in corso sono state presentate ben tre proposte di legge finalizzate all’abrogazione del reato di abuso d’ufficio; il Ministro della Giustizia ha recepito tali proposte, prevedendo l’abrogazione dell’abuso d’ufficio nel quadro di un più ampio disegno di legge del Governo di riforma della giustizia penale, che ha già avuto l’approvazione del Consiglio dei Ministri e sarà presto discusso in Parlamento.

Le proposte di abrogazione dell’abuso d’ufficio nascono, secondo le dichiarazioni dei parlamentari proponenti, ed ora del Ministro della giustizia e dell’intero Governo Meloni, dall’esigenza di rendere più tranquilla l’azione amministrativa di funzionari pubblici, e specialmente di rendere più serena l’azione amministrativa dei Sindaci, che al momento sarebbe paralizzata dalla cosiddetta “paura della firma”, ossia dal timore che, firmando atti di loro competenza, potrebbero incorrere nell’incriminazione da parte delle Procure per abuso d’ufficio. Tali proposte di abrogazione ed ora l’iniziativa conforme del Governo su impulso del Ministro della giustizia non hanno preso in alcun modo in  considerazione che, se da un lato con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio si renderebbero più sereni Sindaci e pubblici amministratori, dall’altro si priverebbero del tutto di tutela penale  cittadini ed imprese, vittime di condotte abusive nell’esercizio di funzioni pubbliche, con l’evidente rischio, ancor più grave, di rendere impuniti anche gli abusi d’ufficio indotti dalla forza intimidatrice di organizzazioni mafiose radicate nel nostro territori; infatti, nelle relazioni di accompagnamento di tali proposte di legge, e ora nelle dichiarazioni pubbliche del Ministro della giustizia, nessun cenno è stato dedicato alle conseguenze che l’abrogazione totale  dell’abuso d’ufficio avrebbe sui cittadini e sulle imprese, ossia sui destinatari finali dell’azione dei titolari di funzioni pubbliche, se non altro per rassicurare  che  cittadini ed imprese non ne subirebbero danno. L’omissione di tale aspetto del problema (le conseguenze dell’eliminazione dell’abuso d’ufficio nei confronti di cittadini ed imprese) appare rivelatrice di una carenza di argomentazioni valide al riguardo.

Del tutto assente è poi in tutte le proposte di legge in questione, e finora anche nell’iniziativa del Governo, una premessa sulla storia del reato di abuso d’ufficio, considerato che con la sua abrogazione si eliminerebbe dall’ordinamento un reato che ha alle spalle una lunga storia, che è opportuno in sintesi tratteggiare.

La storia dell’abuso d’ufficio in Italia: una storia di 134 anni.

L’abuso d’ufficio è stato introdotto per la prima volta nel 1889 con l’approvazione  del primo codice penale dell’Italia post unitaria, (rimasto in vigore fino al 1930) noto come codice Zanardelli, dal nome del Ministro della giustizia che ne fu ispiratore. Era previsto nell’art. 175 di quel codice, che peraltro è storicamente considerato come uno dei codici penali più liberali ed evoluti di quell’epoca, tanto che sancì, su proposta dello stesso Zanardelli, la soppressione della pena di morte. Giuseppe Zanardelli è ricordato nei manuali di storia come un patriota (termine caro alla premier Giorgia Meloni) e patriota lo era in senso risorgimentale, avendo preso parte ai moti e alle guerre di indipendenza che portarono all’Unità d’Italia; negli anni in cui fu deputato e ministro del Regno, appartenne alla cosiddetta Sinistra storica.

Con l’approvazione nel 1930 del nuovo Codice penale (rimasto in vigore fino al 1988) noto come Codice Rocco, dal nome del Ministro della Giustizia dell’epoca, il reato di abuso d’ufficio non solo venne confermato con una  modifica nella formulazione, ma  fu previsto per esso  un aumento di pena. Alfredo Rocco, insigne giurista napoletano, era esponente della Destra nazionale, poi confluita nel partito fascista. E’ opportuno evidenziare come nel passaggio dall’Italia liberale all’Italia fascista, caratterizzata quest’ultima dal culto dello Stato e dei pubblici poteri, il regime fascista non rinunciò, a livello legislativo, all’idea che i titolari di pubbliche funzioni (per quanto fosse alta la considerazione in cui essi erano tenuti) potessero abusare dei loro poteri, in danno dell’immagine stessa della pubblica amministrazione. Da un regime totalitario ci si sarebbe potuti attendere un’eliminazione dell’abuso d’ufficio, a totale protezione dei pubblici funzionari, esonerandoli da ogni rischio di incriminazione per esercizio arbitrario del potere; invece, almeno a livello legislativo, ciò non accadde, e, al contrario, il Codice Rocco, come già evidenziato, non solo mantenne con qualche piccola modifica il reato di abuso d’ufficio, ma lo sanzionò più severamente.

Il reato di abuso d’ufficio, così come previsto dal Codice Rocco del 1930, rimase in vigore anche dopo la caduta del fascismo, la fine della seconda guerra mondiale ed il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, per un lunghissimo arco temporale della cosiddetta prima Repubblica, fino al 1990;  l’abuso d’ufficio, come riformulato dal regime fascista, fu dunque mantenuto nella Repubblica, nata dalla Resistenza, da parte di tutti i governi democratici, succedutisi dopo il 2 giugno 1946 fino al 1990, e quindi tenuto in piedi prima dai governi centristi, guidati dalla Democrazia cristiana, in alleanza con partiti laici, poi dai governi del centro sinistra, (che facevano perno sull’alleanza fra la Dc e ed il partito socialista).

Solo con la legge n. 86 del 1990 fu  prevista una modifica alla norma sull’abuso d’ufficio risalente al 1930; alla modifica del 1990 fece seguito un’ulteriore riformulazione del reato con legge n. 234 del 1997, ed infine, da ultimo, il reato d’abuso d’ufficio è stato nuovamente modificato e notevolmente depotenziato  con il decreto legge c.d. Semplificazioni” n. 76/2020.

Al di là del contenuto delle modifiche apportate al reato d’abuso d’ufficio negli ultimi trenta anni, ciò che emerge dal quadro su indicato è che tale reato ha in Italia una storia di 134 anni, passando dal Regno d’Italia alla Repubblica, dall’Italia liberale all’Italia fascista, dall’Italia fascista all’Italia dei governi democratici della prima e della seconda Repubblica delle più diverse estrazioni, dai governi centristi ai governi del centro sinistra della prima Repubblica, e passando ancora  dai governi tecnici di transizione fra la prima e la seconda Repubblica ai governi del  centro- destra e del centro sinistra che si sono alternati alla guida dell’Italia durante la cosiddetta seconda Repubblica fino ad arrivare ai nostri giorni.

Alla luce di una così lunga storia del reato di abuso d’ufficio, sarebbe dunque il caso che, quando si recherà alle Camere per illustrare il disegno di legge di riforma della giustizia penale, nell’ambito del quale è stata prevista la soppressione del reato d’abuso d’ufficio, il Ministro della giustizia Nordio, compisse il dovere di spiegare pubblicamente in che cosa e perché avrebbero sbagliato i governi italiani e ancor più i parlamenti nazionali dei più diversi orientamenti politici ed ideologici, succedutisi in 134 anni di storia nazionale, dal 1889 ad oggi, nel  prevedere e sanzionare come reato l’abuso d’ufficio.

I Vincoli internazionali impediscono all’Italia di abrogare l’abuso d’ufficio.

Se  134 anni di storia dell’abuso d’ufficio dovrebbero essere considerati, prima di proporre l’abrogazione di tale reato, ancor più si dovrebbe tener conto degli obblighi internazionali che l’Italia ha contratto in merito all’abuso d’ufficio, obblighi che sono tuttora vigenti. In particolare, l’Italia ha aderito alla convenzione dell’Onu contro la corruzione, nota come Convenzione di Merida, firmata  dallo Stato italiano il 9 dicembre 2003 e ratificata dal nostro Paese con la legge n. 116 del 2009. L’art. 19 della Convenzione di Merida rubricato “Abuso d’ufficio” prevede espressamente che: “ Ciascuno Stato Parte esamina l’adozione delle misure legislative  e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso  intenzionalmente,  al  fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni  o  della sua posizione,  ossia  di  compiere  o  di  astenersi  dal  compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto,  in  violazione  delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un’altra persona o entità.

Con la ratifica della Convenzione di Merida lo Stato Italiano si è quindi impegnato a livello internazionale a sanzionare penalmente le condotte di abuso d’ufficio, e quindi a non abrogare l’abuso d’ufficio dal proprio ordinamento;  pertanto, l’eventuale legge di abrogazione dell’abuso d’ufficio si porrebbe in contrasto con l’art. 117 della Costituzione secondo cui: “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato… nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali

Alla luce di quanto sopra l’abrogazione del reato d’abuso d’ufficio sarebbe un fatto grave, perché cancellerebbe 134 anni di storia giuridica e politica e, fatto ancor più grave,  si porrebbe in palese contrasto con l’obbligo internazionale dell’Italia di mantenere nel proprio ordinamento l’abuso d’ufficio, come sancito con la ratifica da parte dello Stato Italiano della Convenzione Onu di Merida.

E’ pertanto auspicabile che il Governo e la maggioranza parlamentare che lo sostiene  decidano di mantenere nell’ordinamento il reato di abuso d’ufficio, a tutela di cittadini ed imprese dall’abuso delle pubbliche funzioni, nel rispetto di 134 anni di storia giuridica e politica, e ancor più nel rispetto degli attuali obblighi internazionali liberamente assunti e ratificati dal nostro Paese.

        Il presidente del Centro Studi De Gasperi di Sciacca

                                      Avv. Stefano Antonio Scaduto

Continua a leggere

IL NO DI ZELENSKY AL PAPA.

Nel suo incontro dell’altro ieri  con Papa Francesco, Zelensky ha detto di no al desiderio del Papa di proporsi come mediatore per la soluzione del conflitto russo-ucraino. E’ stato lo stesso Zelensky a riferire a Porta a Porta che  “ Con tutto il rispetto per Sua Santità non abbiamo bisogno di  mediatori…” C’è una parte condivisile nel discorso di Zelensky ed è che bisogna ricordare e sempre distinguere fra un Paese aggressore (la Russia di Putin) e il Paese aggredito (L’Ucraina), ma  non è condivisibile il suo no preventivo all’offerta del Pontefice di proporsi come mediatore fra le parti in conflitto. Al contrario Zelensky avrebbe potuto accettare il tentativo di mediazione, affermando che comunque l’Ucraina continuerà  a difendersi e a lottare per il ristabilimento della sua integrità territoriale finché non si trovi un accordo e riservandosi quindi il diritto di rifiutare nel merito una proposta di soluzione negoziata del conflitto; invece il  no per principio, a priori,  di Zelensky al tentativo del Papa, e più in generale ai tentativi di altri eventuali terzi mediatori, costituisce un ostacolo insormontabile ad ogni ipotesi di soluzione nel breve- medio termine del conflitto russo-ucraino.  Zelensky ha chiesto al Papa di impegnarsi per ottenere da Putin la liberazione ed il ritorno in Ucraina di migliaia di bambini ucraini deportati in Russia. Ma proprio il suo no preventivo al tentativo di mediazione del Pontefice è chiaramente controproducente rispetto a tale richiesta e renderà molto difficile per il  Papa ottenere il ritorno in Ucraina dei bambini deportati.

Per quanto riguarda il governo italiano, la conferma dell’invio di armi a sostegno dell’Ucraina, in linea con il governo Draghi, ed in linea con la maggior parte dei Paesi Europei (con l’eccezione di Irlanda, Austria, Ungheria) rappresenta un sostegno incondizionato a Zelensky. Ma se le sanzioni economiche contro la Russia da parte del Governo Italiano appaiono pienamente giustificate,  l’invio delle armi da parte dell’Italia ad un Paese come l’Ucraina,  al momento non aderente né all’Unione Europea, né alla Nato, non solo  appare di per sé contro la lettera e lo spirito dell’art. 11 della nostra Costituzione,  ma non è accompagnato da alcuna azione diplomatica per la soluzione del conflitto, e neppure da un invito a Zelensky, a rendersi disponibile ad ascoltare ogni tentativo di mediazione.

Ne consegue che su quello che possiamo ormai definire come il fronte europeo occidentale, l’unico soggetto seriamente intenzionato a proseguire i tentativi per la pace resta solo  il Pontefice con la diplomazia vaticana. E per paradosso, Papa Francesco, oltre ad esercitare la sua leadership spirituale di Capo della Chiesa Cattolica, sta tentando in tutti i modi di svolgere una vera e propria azione politica per la pace, nel vuoto di una vera leadership politica in seno ai Paesi dell’Unione Europea. 

Il presidente del Centro Studi De Gasperi di Sciacca

Avv. Stefano Antonio Scaduto

Continua a leggere

RIFLESSIONI SULLE SCELTE DELL’UNIONE EUROPEA SULLA GUERRA IN UCRAINA E SULLA POSIZIONE ASSUNTA DALL’ITALIA. 

Le notizie più recenti provenienti dall’Ucraina inducono a ritenere che la guerra, causata dall’invasione del territorio ucraino da parte della Russia di Putin, tenda sempre più ad inasprirsi. Il primo ministro ucraino Zelensky continua a chiedere agli Stati Uniti e agli altri Paesi che, sin dall’inizio dell’invasione russa,  hanno accolto il suo invito all’invio di armi, di rifornire il suo Paese di armi sempre più potenti. Da ultimo Zelensky ha chiesto e ottenuto l’invio  di carri armati Leopard fabbricati in Germania e di carri armati Abrams fabbricati in Usa. L’ultima richiesta in ordine di tempo a cui gli Stati Uniti non hanno finora dato risposta positiva riguarda l’invio dei caccia F 16, che, in tutta evidenza, segnerebbero il passaggio dell’azione militare ucraina da un approccio difensivo e di liberazione dei territori ucraini occupati, ad un possibile approccio offensivo sul territorio russo, con ulteriore escalation del conflitto e la possibilità di ulteriori e più gravi controffensive da parte della Russia, che dispone di armi nucleari.

La situazione è quindi sempre più preoccupante, e quel che la rende sempre più pericolosa è, da un lato, la totale assenza oggi di un trasparente ed autorevole tentativo diplomatico di porre fine al conflitto e dall’altro la scarsa probabilità che, anche in un prossimo futuro, si possa aprire fra le parti in conflitto un negoziato per la pace, stante l’assenza, anche in prospettiva, di interlocutori terzi che possano facilitare l’apertura di una trattativa. E’ il caso di chiedersi se la grave assenza di tentativi diplomatici per porre fine al conflitto non dipenda anche dalle scelte compiute dai Paesi membri dell’Unione Europea (Italia compresa) che, oltre ad imporre sanzioni economiche alla Russia, stanno rifornendo di armi l’Ucraina.

L’aggressione militare russa al territorio dell’Ucraina ha posto gli Stati membri dell’Unione Europea di fronte a scelte difficili, data anche la parallela appartenenza degli stessi alla Nato e la necessità di dovere agire su due livelli differenti ed asimmetrici, quello politico, in quanto membri dell’Unione europea, e quello strategico-militare in quanto appartenenti, in assenza di un esercito comune europeo,  alla Nato, organizzazione nella quale, come è noto, gli Usa esercitano una posizione di egemonia. La mancanza di un esercito comune europeo, che De Gasperi, Adenauer e Schumann avevano tentato invano di costruire all’indomani del secondo conflitto mondiale e che avrebbe tolto alla  Nato il ruolo di organizzazione unica di difesa militare dei Paesi occidentali, rappresenta per l’Unione europea di oggi una grave lacuna che, come emerge dalla crisi ucraina, rende i Paesi membri dell’Unione europea dipendenti in larga misura, nelle loro scelte politiche rispetto alla guerra in corso, dalla leadership che gli Usa esercitano all’interno della Nato.

L’impressione è che rispetto alla crisi ucraina gli Stati membri dell’Unione europea si siano allineati in maniera acritica alle posizioni degli Stati Uniti, mentre, ferma restando sia la necessità di una chiara e forte condanna dell’aggressione russa al territorio sovrano dell’Ucraina, sia la necessità  dell’alleanza con gli Stati Uniti, i Paesi membri dell’Unione Europea avrebbero dovuto reagire all’invasione russa in modo parzialmente differente dagli Stati Uniti,  in relazione alla diversità dei rischi connessi all’eventuale allargamento del conflitto, certamente maggiori per i Paesi europei, che non per gli Usa, e alla necessità maggiore per l’Unione europea che non per gli Stati Uniti, di una rapida soluzione del conflitto con una pace giusta, o quanto meno ragionevole, proprio al fine di evitare una più grave guerra nel cuore dell’Europa.

La reazione dei Paesi dell’’Unione europea all’invasione russa dell’Ucraina avrebbe dovuto consistere principalmente in proporzionate sanzioni di tipo economico, in aiuti umanitari ed economici all’Ucraina, e nella messa a disposizione degli Stati Uniti delle basi logistiche per l’arrivo delle armi dagli Usa ed il loro trasferimento in Ucraina, con la contestuale dichiarazione di non volere inviare armi proprie all’Ucraina al fine di  condurre, invece, come Unione europea, una forte azione diplomatica per la cessazione del conflitto.

Sebbene le sanzioni economiche messe in campo dall’Unione Europea contro la Russia, avendo per oggetto il taglio alle forniture di gas e petrolio provenienti dalla Russia, abbiano avuto un impatto negativo non solo sull’economia russa ma anche sulle economie degli stessi Paesi europei, queste sanzioni hanno rappresentato la parte più condivisibile della strategia europea di reazione, avendo ridotto le entrate dello Stato russo e quindi le fonti di finanziamento dell’invasione russa, ed  essendosi accettati da parte dei membri dell’Unione Europea  i costi interni di questo atto, dimostrativo ad un tempo della condanna dell’aggressione russa e della solidarietà al popolo ucraino.

Nell’ambito del condivisibile approccio sanzionatorio di tipo economico nei confronti della Russia, si ritiene che siano stati tuttavia compiuti degli eccessi; appaiono giustificate le sanzioni allo Stato russo, ivi comprese le sanzioni alle società statali russe che somministrano e vendono  gas e petrolio ai paesi europei (come per esempio le sanzioni contro Gazprom), così come appaiono giustificate le sanzioni al sistema bancario russo, con l’esclusione di banche russe dal circuito swift che ha in parte paralizzato il collegamento del sistema finanziario russo al circuito creditizio internazionale, mentre appaiono antigiuridiche prima che politicamente sproporzionate le sanzioni inflitte ai patrimoni personali di singoli cittadini russi; secondo la fonte ufficiale del Consiglio dell’Unione Europea, (cfr. https://www.consilium.europa.eu/it/) le sanzioni individuali sono state comminate a un totale di 1386 cittadini russi. Le sanzioni di tipo individuale consistenti in sequestri a carico di cittadini russi di tutti i loro beni patrimoniali presenti in Europa ( immobili, conti correnti, azioni, quote societarie, ville, yacht) per un valore complessivo in tutta Europa di circa 10 miliardi di euro, appaiono come una violazione di un elementare principio giuridico, quello per cui un privato cittadino non dovrebbe mai essere sanzionato a livello personale per le scelte politiche del Governo del suo Paese. Per giustificare tale decisione, si è data a tali cittadini russi la definizione sintetica di oligarchi russi, presumendosi anche che i loro patrimoni siano riconducibili al capo del Cremlino. E’ molto probabile che una parte di loro  abbia un rapporto di amicizia con Putin, ma definirli oligarchi presuppone che essi abbiano partecipato alla decisione di Putin di invadere l’Ucraina, mentre non è in alcun modo evidente che essi abbiano preso parte a tale decisione, e ciò non può essere presunto sulla base della loro ritenuta amicizia personale con Putin, così come non può presumersi per via politica che i patrimoni di cui sono titolari siano in tutto o anche solo in parte riconducibili al capo del Cremlino.

Le uniche sanzioni individuali legittime comminate dall’UE in quanto strettamente connesse alla responsabilità della grave decisione politica di violare i confini dell’Ucraina,  sono quelle a carico di beni di Putin e di tutti i membri del governo russo in carica, mentre la decisione dell’Unione europea di applicare tali sanzioni a cittadini russi, privi di funzioni politiche nel governo russo, sono da ritenersi contrarie al principio per cui si può rispondere a livello personale solo per fatti e atti di cui si sia autori o partecipi, e giammai per le scelte politiche operate dal Governo del proprio Paese. Per dimostrare la compartecipazione a tali scelte politiche da parte di così tanti singoli cittadini russi, o per dimostrare che i loro beni siano in realtà parte del patrimonio personale di Putin, occorrono le indagini della magistratura e regolari processi davanti ad autorità giudiziarie, mentre tali sanzioni individuali, comminate per via politica e non giudiziaria, sono contrarie allo Stato di diritto proprio degli Stati membri dell’Unione Europea. Ma tali sanzioni individuali , come si è anticipato, oltre ad apparire contrarie allo Stato di diritto, proprio dei Paesi dell’Unione Europea, rappresentano anche un errore in senso propriamente politico.

Un economista francese del XIX secolo, Frederic Bastiat, diceva che “ laddove non passano le merci, passeranno gli eserciti”, un monito intelligente per dire che gli scambi commerciali tendono, creando rapporti fra i popoli, a impedire le guerre, e quando gli scambi commerciali sono impediti, al contrario non esistono più remore al passare degli eserciti. L’avere deciso da parte degli Stati dell’Unione Europea le sanzioni economiche alla Russia, con il taglio delle forniture di gas e petrolio, con il blocco del sistema bancario nonché delle esportazioni di merci e ai trasferimenti di capitali verso la Russia, è una decisione che, di per sé, si colloca nel senso di impedire quel passaggio delle merci che Bastiat indicava come il pericoloso presupposto per il passare degli eserciti, e si è detto che almeno queste decisioni dovevano essere assunte per dare un segnale forte di condanna dell’aggressione russa all’Ucraina, e di solidarietà al popolo ucraino; ma proprio perché tali sanzioni rappresentano di per sé fonte di alta tensione, bisognava che i membri dell’UE si fermassero a tal punto, senza andare oltre, e cioè senza applicare sanzioni individuali a così tanti singoli cittadini russi rispetto ai loro beni personali ubicati in Europa; al contrario gli Stati membri dell’UE avrebbero dovuto dare il segnale di voler distinguere il Governo russo dai suoi cittadini, e così anche di distinguere il governo russo da quei cittadini russi che hanno deciso di investire in Europa, i quali dovevano semmai essere coinvolti in un’azione di dissuasione nei confronti di Putin rispetto alla prosecuzione dell’invasione. Privandoli dei loro beni si è indebolita ogni loro eventuale influenza dissuasiva nei confronti del capo del Cremlino.

Nell’ambito della reazione dei Paesi dell’Unione Europea all’invasione russa dell’Ucraina, la questione più delicata è rappresentata dall’invio di armi all’Ucraina deciso, a livello di singoli Stati, dalla maggior parte dei Paesi membri, in assenza di una politica militare comune a livello europeo. In tal modo, tali Paesi dell’Ue, fra cui l’Italia, si sono allineati all’invio di armi deciso dagli Usa e dal Regno Unito, mentre ufficialmente la Nato in quanto tale, di cui fanno parte tutti i Paesi che singolarmente hanno inviato armi all’Ucraina, non è entrata in azione diretta, atteso che l’art. 5 del Trattato Istitutivo impone che la Nato entri in azione, con il coinvolgimento di tutti gli Stati aderenti, solo se ad essere aggredito militarmente sia anche uno solo dei suoi membri, con conseguente obbligo di difesa collettiva. L’Ucraina non fa parte della Nato e dunque la Nato ufficialmente non è entrata in azione. La decisone dell’invio delle armi all’Ucraina è stata cosi rimessa ai singoli Stati, attraverso un coordinamento solo informale della Nato stessa. Nel quadro di questo coordinamento, stante che non è stato aggredito un Paese aderente alla Nato, i paesi dell’Unione Europea, essendo più esposti al rischio di un allargamento del conflitto, avrebbero dovuto limitarsi alle sanzioni economiche nei confronti della Russia, evitare sanzioni individuali ai cittadini russi, fornire tutt’al più le basi logistiche agli Usa e al Regno Unito per l’invio delle armi all’Ucraina, senza invio di armi proprie, al fine politico di porre tutta l’Unione Europea in una posizione di attore politico per risolvere il conflitto su base diplomatica. Invece l’invio di armi da parte di quasi tutti i Paesi europei, in allineamento con gli Usa e il Regno Unito, ha privato lo scenario internazionale di un’autorevole e costante azione diplomatica per la risoluzione negoziata della crisi, che poteva essere svolta proprio dall’Unione Europea. Non a caso, nell’assoluta assenza  di un’azione diplomatica europea, l’unica iniziativa in tal senso è stata condotta dal premier turco Erdogan, che ha guadagnato per breve tempo la luce della ribalta come attore diplomatico fra le parti in conflitto, ma senza successo, non avendo la necessaria autorevolezza per mediare, dato che la Turchia è un Paese che continua a perseguitare i curdi, ed è un Paese in cui i diritti di libertà sono stati fortemente limitati dalla dura azione repressiva di Erdogan, dopo il tentato fallito golpe contro il suo governo del 2016. Peraltro, è improbabile che, almeno nel breve periodo, Erdogan possa ritentare un’azione diplomatica fra Russia ed Ucraina, dovendo prioritariamente occuparsi delle conseguenze del devastante terremoto che ha colpito la Turchia e stanti le imminenti elezioni politiche turche nel maggio di quest’anno.  

Per quanto riguarda la posizione specifica dell’Italia, la decisione assunta di inviare le armi all’Ucraina non appare conforme all’art. 11 della nostra Costituzione, come si evince anche dai lavori dell’assemblea costituente che ne precedettero l’approvazione.

L’art. 11 della Carta stabilisce che “ l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come strumento di risoluzione delle controversie internazionali; consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Ispiratore principale di tale disposizione costituzionale fu l’On. Giuseppe Dossetti, deputato eletto alla Costituente nella lista della Democrazia cristiana, che nella prima sottocommissione della Commissione dei 75, incaricata di redigere il testo della Costituzione, aveva proposto in prima battuta la seguente formulazione della norma:

“ L’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista o offesa alla libertà degli altri popoli.  Lo Stato  consente, a condizioni di reciprocità, le limitazioni di sovranità necessarie all’organizzazione ed alla difesa della Patria”.

A chiusura del dibattito nella prima sottocommissione il testo iniziale fu modificato all’unanimità per essere sottoposto alla Commissione dei 75 con il seguente tenore: “L’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista o offesa alla libertà degli altri popoli, e consente, a condizioni di reciprocità,  le limitazioni di sovranità necessarie alla difesa e alla organizzazione della pace”.

Infine, a seguito del dibattito nella Commissione dei 75 e del  dibattito successivo innanzi all’intera Assemblea Costituente, l’art. 11 della Costituzione fu approvato nella versione tuttora in vigore con la sostituzione del verbo “ ripudia” a quello di “rinuncia”, con i riferimenti aggiuntivi del ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e di apertura dell’Italia, in condizioni di parità con altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento in grado di garantire pace e giustizia fra le Nazioni.

Con riguardo alla scelta del verbo “ ripudiare” sono significative le parole che furono adoperate dall’On. Meuccio Ruini, Presidente della Commissione dei 75 innanzi all’Assemblea Costituente per spiegare le ragioni alla base della  scelta: “ Si tratta anzitutto di scegliere fra alcuni verbi: rinunzia, ripudia, condanna, che si affacciano nei vari emendamenti. La Commissione, ha ritenuto che, mentre “ condanna” ha un valore etico più che politico-giuridico, e “ rinunzia” presuppone, in certo modo, la rinunzia ad un bene, ad un diritto, il diritto della guerra ( che vogliamo appunto contestare), la parola “ripudia” se può apparire per alcuni richiami non pienamente felice, ha un significato intermedio, ha un accento energico ed implica così la condanna come la rinuncia alla guerra”.  Chiarito quale senso sia stato attribuito dai Costituenti al verbo ripudiare, è importante rimarcare che tale ripudio fu riferito non solo alla guerra di aggressione, ma anche più ampiamente alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, con una implicita affermazione della fiducia dell’Italia nella diplomazia come strumento di risoluzione delle controversie internazionali.

Dai lavori della Costituente emerge poi che, in relazione al secondo periodo dell’art. 11 in cui si afferma che  l’Italia “   consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni…”, i Costituenti volevano riferirsi essenzialmente all’imminente costituzione dell’Onu, quale organizzazione delle Nazioni Unite finalizzata a garantire la pace fra le Nazioni, sicché le limitazioni di sovranità  furono previste nell’art. 11 in funzione dell’adesione dell’ Italia all’Onu, che era stata  fondata il 24 ottobre del 1945, in data quindi anteriore all’elezione dell’Assemblea Costituente; non vi è traccia, invece, nei lavori della Costituente che le limitazioni alla sovranità di cui all’art. 11 fossero state concepite in previsione della successiva costituzione della Nato, il cui trattato istitutivo del 4 aprile 1949, fu sottoscritto anche dall’Italia quando la  Costituzione era già entrata in vigore più di un anno prima (il 1° gennaio 1948); il trattato Nato fu poi ratificato dal nostro Paese con legge  n. 465 del 1 agosto del 1949, all’esito di un dibattito parlamentare caratterizzato da roventi polemiche fra la Dc favorevole alla ratifica ed i partiti di sinistra contrari. Nonostante tali polemiche, nel corso degli anni successivi, e soprattutto negli anni della guerra fredda, l’adesione dell’Italia alla Nato si rivelò come una scelta politicamente accorta e ben può dirsi che, per la sua funzione di difesa militare unitaria a beneficio anche di uno solo dei Paesi alleati che fosse militarmente aggredito, la Nato ha costituito un forte deterrente rispetto alla guerra, assicurando entro tali termini quella pace fra le nazioni che è lo scopo di quelle limitazioni di sovranità che l’art. 11 della Costituzione consente all’Italia in condizioni di parità con altri Stati. Ne consegue che la partecipazione dell’Italia alla Nato non è contraria all’art. 11 della Costituzione, ma che sono da ritenersi incostituzionali tutte le decisioni militari al di fuori della stretta applicazione del Trattato istitutivo della Nato.

Sulla base di queste premesse e arrivando alle conclusioni del ragionamento, in nessun modo può dirsi che l’invio delle armi dell’Italia all’Ucraina trovi fondamento nell’art. 11 della Costituzione; al contrario tale decisione non solo non era e non è costituzionalmente obbligata, ma è da ritenersi incostituzionale. Infatti, l’art. 11 della Costituzione ripudia la guerra non solo come guerra di aggressione, (ed in queste parole possiamo certamente leggere la condanna dell’aggressione della Russia all’Ucraina), ma anche come strumento di risoluzione delle controversie internazionali,  il che significa che i Costituenti hanno voluto che, rispetto alla soluzione delle controversie internazionali l’Italia debba riporre fiducia e compiere ogni suo sforzo nell’azione diplomatica. L’unica guerra implicitamente ammessa dall’art. 11 della Carta è la guerra di difesa nazionale, e per effetto dell’adesione dell’Italia alla Nato, il concetto di una legittima guerra difensiva è stato esteso alla doverosa applicazione dell’art. 5 del Trattato Istitutivo della Nato, e cioè all’obbligo dell’Italia di difendere militarmente, insieme a tutti gli altri Paesi aderenti alla Nato, anche un solo Paese alleato che subisse un’aggressione militare. La circostanza che l’Ucraina non faccia parte della Nato, pertanto, non obbligava l’Italia all’invio delle armi, ma tale  scelta si pone in contraddizione con l’art. 11 della Costituzione, in assenza di obblighi in tal senso scaturenti da un trattato internazionale. Nella condotta da assumere rispetto all’invasione russa dell’Ucraina, i nostri Governi, (prima il Governo Draghi e poi il Governo Meloni), stante la non appartenenza dell’Ucraina alla Nato e neppure all’Unione Europea, avrebbero dovuto applicare alla questione l’art. 11 della nostra Costituzione, e cioè il ripudio da parte dell’Italia della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, ripudio che comprende in sé il non inviare armi ad un Paese in conflitto militare con un altro, e sentire pertanto il dovere di  intraprendere, per la soluzione del conflitto, una costante azione diplomatica, che, date le circostanze, era e dovrebbe essere la strada maestra per l’Italia e per tutta l’Unione Europea.

Il presidente del Centro Studi De Gasperi di Sciacca

Avv. Stefano Antonio Scaduto

Continua a leggere

IL RISCHIO ASTENSIONISMO ALLE PROSSIME ELEZIONI POLITICHE DEL 25 SETTEMBRE A CAUSA DEL METODO DI VOTO. LA NECESSITA’ DI UNA SERIA RIFORMA DELLA LEGGE ELETTORALE.

I VIZI DELL’ATTUALE LEGGE ELETTORALE (NOTA COME ROSATELLUM).

Il 25 settembre 2022 gli italiani voteranno per la seconda volta alle elezioni politiche sulla base della legge elettorale n. 165/2017, nota come Rosatellum, dal nome del senatore Rosato che l’ha ideata.

Il Rosatellum prevede un sistema elettorale misto, in gran parte di tipo proporzionale e in misura minore di tipo maggioritario; il 61 % dei seggi di Camera e Senato vengono attribuiti secondo il sistema proporzionale in favore di singole liste di partito che abbiano superato il 3% dei voti a livello nazionale, sia alla Camera che al Senato,  rispetto alle quali gli elettori  non possono esprimere la preferenza per un candidato della lista prescelta (cosiddette liste bloccate);  è attribuito con il sistema proporzionale anche il 2% dei deputati e senatori,  eletti dagli italiani residenti all’estero, a cui, con evidente paradosso, il Rosatellum ha concesso la facoltà di esprimere una preferenza per un candidato della lista prescelta, facoltà negata invece per la elezione del 61% dei parlamentari agli italiani residenti in Italia.

Infine, il 37% dei seggi di Camera e Senato vengono attribuiti con sistema maggioritario a turno unico mediante collegi uninominali in cui vince il candidato più votato.

Secondo il parere pressoché unanime dei politologi, il Rosatellum ha avuto un impatto negativo sia sulla rappresentatività del Parlamento che sulla stabilità dell’esecutivo.

Sul piano della rappresentatività, il Rosatellum ha privato gli italiani della possibilità di eleggere realmente il 61% dei parlamentari, eletti con sistema proporzionale in liste bloccate, ed ha svuotato il potere degli elettori di eleggere realmente i parlamentari anche nei collegi uninominali  a causa della loro eccessiva ampiezza,  il che ha prodotto nei collegi uninominali l’assenza di un rapporto diretto fra candidati ed elettori e persino la mancanza di conoscenza dei candidati da parte degli elettori.

La riduzione di 1/3 del numero dei parlamentari, per effetto della recente riforma costituzionale, confermata con referendum popolare, ha imposto un adeguamento tecnico del Rosatellum; ne è derivata la riduzione del numero dei collegi uninominali di Camera e Senato che ha a sua volta determinato un aumento abnorme della loro dimensione territoriale, con effetto più vistoso per i collegi uninominali relativi al Senato, rendendo pertanto ancora più gravi nell’ambito dei collegi uninominali la mancanza di un rapporto diretto fra elettori e candidati e la mancanza di conoscenza  dei candidati da parte degli elettori. 

L’attuale legge elettorale ha prodotto una notevole instabilità dell’esecutivo; infatti, il Parlamento eletto con il Rosatellum ha dato la fiducia a tre governi molto diversi fra loro, nati da tre maggioranze parlamentari diverse, costituite da forze politiche che alle elezioni del marzo del 2018 non avevano prospettato agli elettori nessuna delle tre coalizioni che si sono succedute al governo del Paese.

Per rimediare ai vizi del Rosatellum  sarebbe stata necessaria, alla caduta del Governo Draghi, la formazione di un nuovo Governo  anche con il solo scopo di promuovere una seria riforma della legge elettorale. Il Presidente della Repubblica, prevedendo l’impossibilità che un nuovo Governo potesse formarsi, ha preferito sciogliere anticipatamente le Camere, senza neppure avviare le rituali consultazioni con le forze politiche.  

Pertanto alle elezioni del 25 settembre gli italiani saranno costretti a votare per la seconda volta con una legge elettorale pessima che non attribuisce agli elettori né il potere di scelta reale dei parlamentari né permette loro di avere certezza sulla coalizione politica da cui saranno governati per i prossimi cinque anni, come i 4 anni e 7 mesi circa della legislatura anticipatamente conclusasi  hanno ampiamente dimostrato.

IL RISCHIO DI UN ELEVATO ASTENSIONIMSO INDOTTO DAI VIZI DEL SISTEMA ELETTORALE VIGENTE.

In questo desolante quadro politico diventa forte il rischio che alle prossime elezioni politiche cresca l’astensionismo, alimentato dal  clima di sfiducia nei partiti, che da tempo caratterizza la politica italiana, nonché, per le ragioni già descritte, dal senso di frustrazione indotto negli elettori dalla legge elettorale vigente. Va detto però che il distacco di alcune fasce della popolazione italiana dalla politica  è tale che i vizi dell’attuale legge elettorale non trovano spazio nelle loro preoccupazioni, che riguardano invece l’attuale crisi economica, la crescita sempre più preoccupante dell’inflazione, accompagnata dalla recessione, problemi che di fronte alle ricette incerte dei partiti su come affrontarli, potrebbero dare una spinta anche maggiore all’astensionismo.   

Secondo un sondaggio svolto da SWG, 1/3 del campione degli elettori intervistati ha affermato di considerare “inutile” il voto per le prossime elezioni politiche.

Tornando ai vizi del Rosatellum, va anche rilevato che le polemiche scaturite all’interno di tutti i partiti  dalla presentazione delle liste di candidati alle elezioni politiche hanno messo in evidenza la mortificante esclusione, in molti casi, dalle posizioni di facile eleggibilità di aspiranti candidati operanti nei vari territori, in favore di candidati imposti dai segretari dei partiti, ma estranei ai territori, il che ha accentuato lo sfibrarsi dei partiti in diverse aree territoriali, rendendo conseguentemente meno vivace nelle varie aree del Paese la campagna elettorale, che resta viva solo su un piano mediatico nazionale. Ne consegue che un ulteriore fattore incentivante l’astensionismo,  derivante dai vizi del Rosatellum,  può essere costituito dal senso di frustrazione e di disinteresse rispetto alla campagna  elettorale dei gruppi politici dei partiti operanti sul territorio.

LA NECESSITA’ DI UNA RIFORMA ELETTORALE; L’AUSPICABILE RITORNO DEL SISTEMA ELETTORALE NOTO COME MATTARELLUM, DAL NOME DELL’ATTUALE CAPO DELLO STATO CHE NE FU L’AUTORE.

Per rimediare ai vizi del Rosatellum occorre una seria riforma elettorale, non più rinviabile all’indomani del 25 settembre.

L’ultimo sistema elettorale che in Italia ha funzionato sia rispetto all’esigenza di garantire un adeguato potere degli elettori di scegliere i singoli candidati da eleggere al Parlamento, sia con riguardo al potere degli elettori di determinare con il voto la natura del governo successivo alle elezioni, nonché la stabilità dello stesso, è stato il cosiddetto Mattarellum, dal nome dell’attuale Capo dello Stato che l’ha ideato, e che aveva preso corpo in due leggi, una per l’elezione della Camera dei Deputati, e una legge per l’elezione del Senato,  entrate in vigore nel 1993 e rimaste vigenti fino al 2005.  

Il Mattarellum  prevedeva  l’attribuzione del 75% dei seggi di Camera e Senato (rispettivamente 475 e 232 seggi) mediante il metodo maggioritario a turno unico in collegi uninominali, ove prevaleva il candidato più votato, e l’attribuzione del 25% di seggi di Camera e Senato con sistema proporzionale. Tale sistema elettorale ha garantito negli anni in cui ha avuto applicazione, un adeguato, anche se non pieno, potere di scelta da parte degli elettori dei candidati al Parlamento, atteso che i 475 collegi uninominali previsti per la Camera e i 232 previsti per il  Senato avevano dimensioni medio- piccole, sicché in essi era garantito un rapporto diretto fra candidati ed elettori e la facile conoscibilità dei candidati da parte degli elettori, che dunque potevano esercitare un potere di scelta consapevole fra i candidati dei vari schieramenti politici nei collegi. 

Non era garantito nel Mattarellum il potere di scelta individuale del 25% dei deputati eletti con metodo proporzionale, rispetto al quale l’elettore poteva votare una lista “bloccata” di partito senza potere esprimere una preferenza; invece,  per quanto riguarda il Senato, il 25 % dei senatori eletti con metodo proporzionale era costituito da candidati che avevano avuto un rilevante consenso elettorale, in quanto migliori perdenti nell’ambito dei collegi uninominali.

Negli anni in cui ha avuto applicazione, il Mattarellum ha anche garantito agli elettori,  grazie alla sua ampia quota di parlamentari eletti con il metodo maggioritario, di determinare, con il loro voto, la coalizione che avrebbe governato l’Italia nei successivi 5 anni e, di fatto, chi sarebbe stato la guida del governo, essendo i candidati nei collegi uninominali rappresentativi di una coalizione con un programma di governo.

Gli anni del Mattarellum hanno visto l’alternarsi al governo degli schieramenti di centro-destra e centro- sinistra; sono stati gli anni dell’alternanza Berlusconi- Prodi e in quegli anni, si è registrata nel Paese un’ampia partecipazione politica, con esiti elettorali, all’indomani dei quali, gli elettori sapevano quale coalizione avrebbe governato e con quale presidente del consiglio, con soddisfazione da una parte e delusione dall’altra, ma con la convinzione unanime che il voto del singolo elettore fosse utile a determinare anche quale sarebbe stato il governo del Paese.

Oggi  il ritorno al Mattarellum, con alcuni correttivi, farebbe bene all’Italia.

Considerata la riduzione numerica dei parlamentari, se il Mattarellum fosse reintrodotto, il 75% dei deputati e dei senatori (cioè 300 deputati e 150 senatori) sarebbe eletto con sistema maggioritario a turno unico in altrettanti collegi uninominali di media dimensione, con un dimezzamento dell’attuale abnorme dimensione territoriale dei collegi uninominali  previsti dal Rosatellum, attualmente in numero di 148  per la Camera dei Deputati  e di 74 per il Senato; ciò avrebbe l’effetto di recuperare e garantire nei collegi uninominali per la Camera e per il Senato il rapporto diretto fra candidati ed elettori e la conoscibilità dei candidati da parte degli elettori, con un’inevitabile maggiore propensione dei partiti e degli schieramenti politici a proporre candidati del territorio.

Considerato che il 2% dei parlamentari, per effetto di una riforma costituzionale del  gennaio del 2000, deve essere eletto dagli italiani residenti all’estero, il 25% dei seggi che il Mattarellum assegnava con metodo proporzionale tanto alla Camera quanto al Senato, dovrebbe comprendere in sé tale quota del 2% di parlamentari eletti all’estero, sicché la reintroduzione del Mattarellum dovrebbe contenere tale correttivo, con la previsione di un 23% di seggi alla Camera ed al Senato attribuiti con metodo proporzionale attraverso il voto degli italiani residenti in Italia ed il 2% dei seggi attribuiti con metodo proporzionale con il voto degli italiani residenti all’estero. 

Come già accennato, nella sua versione originaria il Mattarellum escludeva il potere di scelta dei candidati da parte degli elettori solo in relazione al 25% dei deputati, eletti con metodo proporzionale in liste bloccate; invece, per la quota del 25% di senatori che erano eletti con il sistema proporzionale, l’elezione diretta veniva garantita dal ripescaggio nelle singole Regioni dei migliori perdenti nei collegi uninominali, sicché può dirsi che la legge nel suo impianto originario garantiva che i senatori eletti con il sistema proporzionale fossero portatori di un consenso popolare. 

Ne consegue che, ove fosse reintrodotto il Mattarellum, il correttivo necessario da apportare alla sua versione originaria, al fine di conferire un pieno potere di scelta dei parlamentari da parte degli elettori,  sarebbe l’introduzione della preferenza per l’elezione del 25% dei deputati, ivi compresa la quota del 2% dei deputati eletti dagli italiani all’estero, mentre per il 25% dei senatori eletti con sistema proporzionale potrebbe restare inalterato il meccanismo originario di attribuzione dei seggi con ripescaggio nelle singole Regioni dei migliori candidati  perdenti nei collegi uninominali.

Inoltre, considerato che per l’assegnazione del 25% dei seggi alla Camera dei Deputati, il Mattarellum prevedeva che potessero ottenere seggi solo quelle forze politiche che avessero raggiunto la soglia di almeno il 4% dei voti validi a livello nazionale, si ritiene che per compensare gli effetti di un sistema largamente maggioritario, e per garantire un più facile accesso al Parlamento di forze politiche minori, tale soglia potrebbe essere rivista e ridotta al 3%.

La reintroduzione del Mattarellum, con alcuni correttivi, ridarebbe ai cittadini italiani il potere di scelta dei parlamentari e il potere di determinare la natura del governo all’esito del voto, con l’obiettivo di conseguire una maggiore stabilità dell’esecutivo.

Sia nella penultima legislatura ( la XVII) che nella legislatura appena conclusasi ( la XVIII)  sono state presentate in Parlamento proposte di legge finalizzate alla reintroduzione del sistema elettorale del Mattarellum ( la n. 4166 e la n. 2346  entrambe alla Camera dei deputati)  a firma di parlamentari di diversi schieramenti politici, segno che l’idea della reintroduzione del Mattarellum è stata condivisa da più parti, mentre è mancata la spinta dei leaders dei partiti di appartenenza dei firmatari, essendo i segretari di partito  più preoccupati di garantire a sé il maggior potere che l’attuale legge elettorale consente loro di determinare con più facilità candidature ed elezione sicura ai propri più fidati amici di partito.

Riproporre oggi, seppure con alcuni correttivi,  un modello elettorale già sperimentato in Italia, nasce dalla considerazione che negli anni di sua applicazione il sistema elettorale in questione ha funzionato, con un rilevante grado di soddisfazione da parte degli italiani;  inoltre, riproporre il Mattarellum avrebbe anche il senso  di spingere  le forze politiche a trovare più facilmente un’intesa sulla riforma nel nome di un sistema elettorale a suo tempo concepito dall’attuale Presidente della Repubblica, considerato oggi con ampia fiducia il garante dell’Unità nazionale e per questo, non a caso, rieletto dalla quasi totalità delle attuali forze politiche per un secondo mandato al Quirinale.  

Si ritiene quindi che un Mattarellum rivisto e corretto possa più facilmente corrispondere alla necessità di tutte le forze politiche di trovare un accordo ormai non più rinviabile sulla necessaria riforma elettorale all’indomani del 25 settembre 2022  e che possa al tempo stesso corrispondere ancor più al desiderio degli italiani di recuperare “sovranità popolare”, attraverso un diritto di voto  che possa essere di nuovo efficace sia rispetto alla elezione dei singoli parlamentari sia rispetto alla formazione ed alla stabilità del governo dopo le elezioni.

Sciacca, 9.09.2022                            

Il presidente del Centro Studi De Gasperi di Sciacca

              Avv. Stefano Antonio Scaduto

Continua a leggere

IL PESO POLITICO DEL CENTRO NELLE COALIZIONI ALLE PROSSIME
ELEZIONI POLITICHE DEL 25 SETTEMBRE 2022.

LA MARGINALIZZAZIONE DEL CENTRO NELLA COALIZIONE DI CENTRO DESTRA E  LA POSSIBILE MAGGIORE ATTRATTIVITA’ PER L’ELETTORATO MODERATO DI UN POLO AUTONOMO DI CENTRO.

Si avvicinano le elezioni nazionali del prossimo 25 settembre. In base ai sondaggi, la coalizione di centro- destra è favorita per la vittoria. A questa vittoria contribuirà l’elettorato moderato?  Notoriamente questo elettorato guarda alle forze di centro, una parte di questo elettorato è attento alla fattibilità dei programmi ed è ancora sensibile ad un quadro di valori e principi ideali di riferimento. La coalizione di centro destra, soprattutto nella scelta dei candidati nei collegi uninominali,  appare sbilanciata, in termini di rapporti di forza interni, in favore di Fratelli d’Italia e della Lega ed  in misura minore in favore di  Forza Italia, mentre l’Udc e  formazioni centriste minori hanno ottenuto una percentuale bassissima di candidati,  da presentare nei collegi uninominali, come candidati della coalizione. Sul piano mediatico a far la parte dei protagonisti per il centro- destra in campagna elettorale sono Giorgia Meloni, Matteo Salvini e  Silvio Berlusconi, mentre è del tutto assente, nei mezzi di comunicazione di massa, Lorenzo Cesa, segretario dell’Udc,  che è fra le formazioni del centro destra, quella non solo nata  come formazione politica di centro, ma quella che può vantare di essere erede della tradizione centrista della Dc. Appare dunque evidente al momento la marginalità del centro nell’attuale assetto della coalizione di centro- destra, tanto che, secondo alcuni commentatori, sarebbe al momento  più opportuno ridefinire tale alleanza  come una coalizione di destra-centro, mentre per altri la coalizione di centro- destra è  da definirsi tout court come “ la destra”. 

Dopo la rottura del patto fra Azione e Pd, nella coalizione di centro- sinistra, costituita dal Pd, da Sinistra Italiana, Verdi e + Europa, il centro è solo in parte rappresentato dal  Partito Democratico. La presenza di Sinistra Italiana di Fratoianni in questa coalizione potrebbe in parte allontanare una quota di elettori moderati dal centro- sinistra. Basti pensare, solo per fare un esempio, alle differenze sostanziali di posizioni in politica estera fra il Pd e la Sinistra Italiana, avendo Fratoianni recentemente votato alla Camera dei Deputati contro l’allargamento della Nato alla Finlandia ed alla Svezia, in maniera opposta al gruppo parlamentare del PD, ed avendo votato tantissime volte contro il Governo Draghi, convintamente sostenuto, invece, dal Pd. Una disomogeneità programmatica di non poco conto.

Qualora si costituisse nei prossimi giorni un terzo polo autonomo di centro  per effetto dell’eventuale alleanza fra Azione di Carlo Calenda ed  Italia Viva di Matteo Renzi, il centro sarebbe in tale polo più omogeneamente rappresentato rispetto alle due coalizioni principali e  potrebbe spingere alle prossime elezioni una quota rilevante di elettorato moderato a votare per questo terzo polo,  come conseguenza del mancato riconoscersi di questa quota di elettorato nei due schieramenti principali.

Rispetto al discorso su come gli orientamenti dell’elettorato moderato possano condizionare l’esito delle prossime elezioni politiche, appare al momento meno rilevante e meno attrattivo per l’elettorato moderato il posizionamento del Movimento 5 stelle.

Seppure Giuseppe Conte sia una personalità moderata, l’impressione è che il Movimento 5 stelle nel suo insieme voglia riacquistare in campagna elettorale un approccio movimentista, cui contribuisce la nuova condizione di isolamento politico dei 5 stelle.

Il centro è dunque marginale nella coalizione di centro- destra, è parzialmente rappresentato nella coalizione di centro-sinistra, potrebbe essere rappresentato in maniera più omogenea da un terzo polo autonomo di centro, qualora i leaders di Azione ed Italia Viva decidessero di allearsi, mentre è poco rappresentato nel Movimento 5 stelle.

Dalla debolezza del centro nella coalizione di centro-destra potrebbe derivare una riduzione della dimensione numerica della vittoria della coalizione di centro-destra.

Peraltro si capisce sin d’ora quali saranno le parole chiave della campagna elettorale del centro- sinistra. L’accordo fra Pd, Sinistra italiana e Verdi fa riferimento al concetto di “ difesa della Costituzione”, concetto con il quale si prospetta il pericolo che il centro- destra possa dar vita, se vincente,  con la sua sola maggioranza parlamentare  a riforme costituzionali unilaterali. Il centro- sinistra sta inoltre già mettendo in dubbio la convinta adesione ai valori democratici di Giorgia Meloni a cui si rimprovera di non avere tagliato del tutto i ponti con frange dell’estrema destra nostalgica del fascismo.  Il mettere in dubbio l’adesione della  leader di Fratelli d’Italia ai valori democratici appare come una caricatura ma potrebbe far presa su una quota di elettorato moderato, qualora non vi fosse una rinnovata netta presa di distanze da parte di Fratelli d’Italia dalle già citate frange dell’estrema destra extraparlamentare ancora sentimentalmente legata al fascismo.

Inoltre, in relazione al pericolo paventato dal centro sinistra di riforme costituzionali unilateralmente approvate dall’eventuale maggioranza parlamentare di centro destra, se da un lato, un esponente moderato del Centro destra, nonché di Fratelli d’Italia, come Guido Crosetto, ha evidenziato che per le riforme occorre un dialogo fra tutte le forze politiche,  la coalizione di centro destra dovrebbe comunque chiarire  quali riforme costituzionali intenda promuovere, portando il confronto sul merito delle stesse.  Basterebbe questo per attrarre l’elettorato più moderato verso la coalizione di centro-destra?

La risposta è che l’attrattività della coalizione di centro-destra per l’elettorato moderato appare solo parziale ed è legata per lo più alla prospettata riduzione della pressione fiscale sul ceto medio, ma, qualora prendesse corpo per le prossime elezioni un polo autonomo di centro, costituito in ipotesi da Azione ed Italia Viva, il polo centrista autonomo potrebbe risultare più attrattivo, stante l’attuale marginalizzazione del centro, in termini di candidati centristi, nella coalizione di centro-destra.

La coalizione di centro destra, per non essere definita di destra-centro dovrebbe ridare dignità alle formazioni centriste, ed in primis all’Unione di Centro, in virtù della vocazione stabilmente centrista di questo partito e dell’eredità storica che ha alle spalle. In questo riequilibrio verso il centro della coalizione di centro- destra un ruolo fondamentale dovrebbe essere svolto da Forza Italia, in virtù della sua adesione  al PPE,  e quindi da Silvio Berlusconi, e dovrebbe essere favorito strategicamente sia da Giorgia Meloni che da Matteo Salvini. Un centro destra che nei collegi uninominali  presentasse pochi candidati dell’Udc, o comunque pochi candidati centristi apparirebbe troppo sbilanciato a destra e potrebbe dunque non attrarre a sufficienza l’elettorato moderato, che sarebbe per contro più  attratto dal polo di centro.

Va detto anche che, qualora l’Udc e le altre formazioni centriste ottenessero un riequilibrio della coalizione di centro- destra verso il centro, con la possibilità di presentare un maggior numero di propri candidati come candidati della coalizione, nei collegi uninominali (allo stato attuale sono pochissimi), l’aver ottenuto questo risultato obbligherebbe l’Udc e le altre formazioni centriste minori a compiere uno sforzo di innovazione con la presentazione nei collegi uninominali di una quota rilevante di candidati nuovi. Se l’aumento del numero dei candidati centristi  nei collegi  uninominali servisse soltanto a ripresentare il personale politico uscente,  non si potrebbe in alcun modo innescare una possibilità di rigenerazione nel medio- lungo periodo di quel centro che ha alle spalle il lascito storico- politico e culturale della Dc.

Per contro, l’eventuale esistenza alle prossime elezioni politiche di un terzo polo centrista potrebbe spingere l’elettorato più moderato, permanendo la marginalizzazione delle formazioni centriste nell’ambito del centro- destra, a preferire elettoralmente il terzo polo, in ipotesi costituito da Azione ed Italia Viva, considerata la maggiore omogeneità programmatica di tale eventuale terzo polo. Non vi sono infatti differenze rilevanti fra Azione ed Italia Viva, avendo entrambe sostenuto convintamente il Governo Draghi e volendo proseguire i temi programmatici della cosiddetta agenda Draghi.

Nei prossimi giorni si capirà se, in vista delle elezioni politiche del 25 settembre, la coalizione di centro- destra  vorrà riequilibrare  al centro la sua offerta politica e se prenderà corpo un polo autonomo di centro.   

Sciacca, 10 agosto 2022                    

 

Il presidente del Centro studi De Gasperi di

 Sciacca   

Avv. Stefano Antonio Scaduto

Continua a leggere

Considerazioni sul disegno di legge del Governo Draghi per ridurre la durata dei processi penali.Idee alternative per ridurre la durata dei processi penali e civili.

centro studi De Gasperi – Sciacca

Il disegno di legge recante “delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’ appello”, pur mantenendola formalmente, tende a vanificare  la disciplina sulla prescrizione introdotta dalla riforma “Bonafede”.

L’attuale assetto della prescrizione dei reati, fortemente voluto dall’ex Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è entrato in vigore il 1 gennaio 2020. In base alla disciplina tuttora in vigore. “ Il corso della prescrizione rimane sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna”. In realtà, è stato osservato che  la norma avrebbe dovuto avere una formulazione più appropriata nel senso che “ Il corso della prescrizione rimane definitivamente bloccato dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna…”,  perché la norma non prevede una ripresa del corso della prescrizione dopo la pronunzia della sentenza di condanna o del decreto di condanna, sicché non di sospensione si tratta, in attesa di una ripresa del decorso, ma di un blocco definitivo della prescrizione.  

Il motivo che ha  fatto da propulsore all’attuale assetto della prescrizione, per cui essa rimane definitivamente bloccata dopo la pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna, è stato il volere impedire, data la lunghezza in Italia dei processi penali, il facile maturarsi della prescrizione dei reati, in un’ottica di maggior tutela delle persone offese dai reati e di garantire che i colpevoli dei reati abbiano meno possibilità di giovarsi della prescrizione per essere assolti.  Con la riforma “Bonafede” la prescrizione può maturarsi solo fino alla sentenza di primo grado, mentre prima di tale  riforma, la sentenza di primo grado o il decreto penale di condanna non determinava alcun effetto di blocco definitivo della prescrizione, che al contrario continuava a “correre”  con il rischio verificatosi tante volte in Italia, di improcedibilità dei processi per prescrizione dei reati sopravvenuta prima della conclusione dei processi in grado d’appello o innanzi alla Corte di Cassazione.

Alla disciplina attuale della prescrizione, la cui approvazione parlamentare è avvenuta sotto il primo Governo Conte (governo giallo-verde), sono state indirizzate critiche, in primis dall’avvocatura e dalle forze politiche, specialmente di centro-destra. Secondo tali critiche, gli obiettivi perseguiti dalla riforma “ Bonafede” di maggior tutela delle persone offese rispetto al rischio della caduta in prescrizione dei reati di cui sono state vittime, nonchè di prevenire con maggior forza la commissione di reati, rendendo più difficile per i colpevoli il “farla franca” con la prescrizione, sono stati raggiunti sacrificando però gravemente il diritto degli imputati alla ragionevole durata del processo penale.

Infatti, il blocco definitivo della prescrizione dopo la sentenza di primo grado  determinerebbe, secondo le critiche alla riforma Bonafede, il rischio di un allungamento temporale indefinito della durata del giudizio d’appello e del giudizio di Cassazione, stante che i Giudici d’appello e della Corte di Cassazione non avrebbero più nessuno sprone, in assenza dello scorrere del termine della prescrizione, per decidere in tempi ragionevoli i processi nei loro rispettivi gradi di giudizio. L’Avvocatura ha riassunto la sua posizione critica verso la riforma “Bonafede”  con le parole “ No al fine processo mai”. In effetti, con il blocco definitivo della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, la durata del processo penale nei gradi d’appello e di Cassazione diventerebbe indefinita, con pregiudizio del diritto alla durata ragionevole del processo, previsto dall’art. 111, comma 2° della Costituzione, in assenza di un termine certo di conclusione dei processi sia nel grado d’appello che nel grado di Cassazione.  

Il Governo Draghi, con il nuovo Ministro della Giustizia Marta Cartabia, dopo appena un anno e sei mesi dall’entrata in vigore della riforma Bonafede,  intende vanificare il blocco definitivo della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, introdotto con la riforma “ Bonafede”, da un lato mantenendolo formalmente, e dall’altro rendendolo inefficace attraverso l’introduzione, dopo la sentenza di primo grado, della causa di improcedibilità dei giudizi d’appello qualora  essi non si concludano entro il termine di due anni, termine prorogabile a tre per i reati più gravi,  e di improcedibilità dei giudizi di Cassazione, qualora essi non si concludano nel termine di un anno, prorogabile ad un anno e sei mesi per i reati più gravi.

Si può dire il Governo in carica ha dato prova più che di europeismo, di “bizantinismo” perché tale proposta di riforma può essere letta come una reintroduzione “mascherata” del decorso della prescrizione successivamente alla sentenza di primo grado; si è inteso così mantenere formalmente il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado e lo si è poi di fatto superato, per non dire eluso, attraverso un istituto che non si chiama più prescrizione del reato, ma improcedibilità; in termini concreti, soprattutto per i non addetti ai lavori, gli effetti sono identici.  

Sui temi della giustizia il sistema politico italiano non ha pace, cambiando continuamente norme importanti senza tuttavia riuscire a mutare l’atteggiamento degli italiani di fronte alla giustizia che, nel momento attuale è caratterizzato, secondo attendibili rilevazioni, dal prevalere di sentimenti di sfiducia.

L’innesco della volontà di riformare nuovamente la giustizia penale nasce dalla necessità di attuare le riforme sulla giustizia che ci chiede l’Unione Europea, come precondizione per accedere ai fondi del Recovery Plan, sulla base del Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza (PNRR).

L’Unione Europea ci chiede di ridurre notevolmente i tempi dei processi, sia civili che penali, considerato che l’Italia può vantare il triste primato di Paese con la durata media dei processi più lunga rispetto agli altri membri dell’Unione, ed è stata più volte condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, per violazione del principio di durata ragionevole dei processi.

Va detto però che l’Unione Europea, nel chiederci di ridurre i tempi dei processi, non ci ha di certo chiesto di rendere inutili il lavoro, le energie, il tempo impiegato nei processi penali che si concludono per il sopravvenire della prescrizione, e non ci ha neppure chiesto di introdurre cause di improcedibilità dei processi in grado d’appello ed in grado di Cassazione qualora vengano superati termini predeterminati; l’Unione Europea ha chiesto allo Stato Italiano di garantire che sia i processi penali che quelli civili abbiano una durata ragionevole, ma sulla base dell’ovvio presupposto logico  che essi giungano ad una conclusione nel merito.

E’ l’attuale Governo a ritenere che, per garantire la durata ragionevole dei processi penali sia necessario introdurre nei gradi d’appello e di Cassazione una causa di improcedibilità, una volta superato per i giudizi d’appello il termine di due anni prorogabile a tre, ed una volta superato per i giudizi di Cassazione il termine di un anno, prorogabile ad un anno e 6 mesi.

E’ invece possibile che la garanzia alle parti della ragionevole durata dei processi penali possa essere assicurata con strumenti diversi sia dalla prescrizione che dall’improcedibilità per decorso dei termini di durata dei giudizi d’appello e di Cassazione.

La riforma Bonafede è stata mossa dalla giusta intenzione di ridurre l’area di impunità determinata dalla prescrizione, sul presupposto che a giovarsi ingiustamente della prescrizione siano soprattutto  imputati colpevoli, con il limite però di determinare una durata indefinita dei processi penali in grado d’appello e nel giudizio di cassazione, ledendo per tale aspetto il diritto degli imputati alla ragionevole durata complessiva dei processi penali.

Il disegno di legge di riforma del Ministro Cartabia, approvato in Consiglio dei Ministri,   attraverso l’improcedibilità dei giudizi d’appello, e dei giudizi di Cassazione superati i termini previsti, e ciò, senza prevedere un adeguato incremento dell’organico della magistratura, è un disegno che, eludendo il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, di fatto avvantaggia gli imputati, lede il diritto delle persone che si ritengono offese dal reato di ottenere una sentenza nel merito, riallarga l’area di impunità che la riforma Bonafede ha ridotto.

Il problema della ragionevole durata dei processi penali in Italia, al fine di adempiere quanto richiesto dall’Unione Europea, nonché al fine di migliorare lo stato della giustizia penale in Italia, può essere affrontato senza il ricorso all’istituto della prescrizione e senza il ricorso alla tagliola dell’improcedibilità dei giudizi d’impugnazione per decorso dei termini di durata degli stessi.

Va evidenziato innanzitutto che l’Unione Europea non ci chiede solo di ridurre la durata dei processi, ma anche di aumentare il numero dei magistrati; il commissario europeo alla Giustizia ha evidenziato che l’Italia ha un numero di magistrati insufficiente; l’aumento del numero dei magistrati, con una chiara individuazione del carico di lavoro ragionevole in termini di processi da trattare e decidere cui ciascun Giudice può essere sottoposto, è allora una condizione essenziale di natura strutturale-organizzativa per la riduzione della durata dei processi e poco rilievo viene dato nel disegno di legge Cartabia a questo aspetto.

Inoltre, la ragionevole durata dei processi può essere garantita dalla predeterminazione per legge della durata dei processi penali per ciascuno grado di giudizio dal primo fino all’ultimo, prevedendo che, superato il termine massimo di durata di ciascun grado del processo, lo Stato italiano, senza bisogno di alcun ricorso delle parti (come prevede l’attuale legge Pinto),  sia obbligato a versare un indennizzo automatico elevato e progressivamente crescente (in relazione all’aumento del ritardo) all’imputato ed alle altre parti private coinvolte nel processo penale.

Responsabili del rispetto dei termini di durata del processo penale, prefissati per legge per ciascuno grado di giudizio, una volta che sia stata verificata la regolarità delle notifiche e della costituzione delle parti in giudizio, dovrebbero essere i Giudici investiti del relativo grado di giudizio con obbligo da parte dello Stato, attraverso il Ministero della Giustizia, una volta pagato l’indennizzo all’imputato ed alle altre parti private per il superamento del termine di durata, di attivare nei confronti dei Giudici un procedimento amministrativo di verifica delle ragioni del ritardo, il che aumenterebbe il senso di responsabilità dei Giudici nel rispettare i termini prefissati per legge di durata dei processi nel grado di giudizio cui sono preposti.

Nel procedimento di verifica dei motivi che hanno causato il ritardo processuale, il Giudice monocratico o collegiale dovrebbe indicare per quali ragioni non vi sia stata colpa nel ritardo, per esempio, a causa di un carico di lavoro eccessivo rispetto alla media, e di un’insufficienza numerica a farvi fronte.

L’eventuale azione di responsabilità nei confronti dei Giudici ordinari per superamento dei termini di durata del processo, che fosse imputabile a loro colpa dovrebbe essere attribuita alla Procura regionale della Corte dei Conti territorialmente competente, sicché l’azione stessa sarebbe sottratta al Governo, che potrebbe solo chiedere che si proceda, dipendendo l’effettivo esercizio dell’azione di responsabilità dalla valutazione di un organo dell’accusa della magistratura contabile, da ritenersi indipendente ed imparziale.

La copertura assicurativa dei magistrati giudicanti dovrebbe estendersi anche all’eventuale danno erariale provocato dai ritardi nel rendere giustizia rispetto ai termini di legge prefissati.

Infine, ma non per ordine di importanza, il superamento da parte dei Giudici dei termini di durata dei processi nel grado di loro competenza dovrebbe essere valutato ai fini di una valutazione di efficienza del loro operato e costituire uno dei fattori base nell’avanzamento di carriera.

Rendere ragionevole la durata dei processi penali senza ricorrere agli strumenti della prescrizione dei reati e dell’improcedibilità è possibile.

Sarebbe interessante capire come la Magistratura valuterebbe tale proposta, con la quale certamente si rafforzerebbe il principio di responsabilità dei Giudici, che comprenderebbe anche l’obbligo di rendere giustizia in tempi certi, precisi, ed esattamente determinati dalla legge, con possibili conseguenze anche sul piano dell’avanzamento in carriera.

Si può dire certamente che un aiuto all’accettazione di una tale proposta da parte della Magistratura giudicante sarebbe proprio l’auspicato adeguato aumento dell’organico della Magistratura ed una chiara individuazione del carico di lavoro medio di  ciascun Giudice,  ragionevole e compatibile rispetto all’ipotizzato dovere di osservare i termini di durata dei processi determinati per legge; un maggior numero di magistrati giudicanti ed una chiara individuazione del carico di lavoro medio esigibile renderebbero meno gravosa l’auspicata piena responsabilizzazione di cui sopra nell’assicurare il rispetto di termini certi, prefissati per legge, per ciascuno grado del processo penale.

Per contro il ritenere, come il Governo Draghi ritiene, di affrontare il problema della ragionevole durata dei processi penali, attraverso l’improcedibilità dei giudizi d’appello e di Cassazione, una volta superati i termini di durata prefissati, costituisce un approccio per nulla innovativo, che riallargherebbe, in controtendenza rispetto alla Riforma “Bonafede” l’area dell’impunità dei reati, con forte impatto negativo sul  diritto delle vittime dei reati ad una sentenza di punizione dei colpevoli o comunque ad una sentenza nel merito, e con una perdita di risorse dello Stato, per tutti quei processi che dovessero in corso d’opera interrompersi, per sopravvenuta improcedibilità, vanificando il tal modo il lavoro di magistrati e di ausiliari del processo.

L’Unione Europea non contempla, nella sua richiesta all’Italia di garantire processi penali in un tempo ragionevole, l’eventualità che i processi si concludano con un nulla di fatto, bensì presuppone nella sua richiesta che i processi penali si concludano  nel merito in tempi ragionevoli, con una sentenza di giusta assoluzione o di giusta condanna.

Si può garantire la ragionevole durata dei processi penali eliminando del tutto la prescrizione e senza prevedere alcuna improcedibilità,  predeterminando per legge, per ciascun grado di giudizio il termine di durata, obbligando lo Stato ad indennizzare automaticamente imputato e altre parti private per ogni giorno in più rispetto al termine di durata fissato per legge per ciascun grado di giudizio, con obbligo dello Stato di verificare nei confronti dei Giudici, attraverso un procedimento amministrativo, i motivi del ritardo, prevedendo l’eventuale azione per danno erariale laddove il ritardo sia stato determinato non da disfunzioni organizzative ma da colpa del Giudice, prevedendo la copertura assicurativa della  responsabilità civile dei giudici anche in relazione al superamento dei termini di durata dei processi, e prevedendo che il rispetto dei termini legali di durata dei processi sia un criterio di valutazione dell’efficienza dei Giudici ai fini dell’avanzamento in carriera.

Per contro, l’eliminazione del tutto della prescrizione e di ogni altra improcedibilità per decorso dei termini rafforzerebbe in Italia il rispetto della legge ed il senso di giustizia, in quanto eliminerebbe l’impunità, accrescerebbe il rispetto delle norme penali e la certezza della pena, che invece proprio gli istituti della prescrizione e dell’improcedibilità di cui al disegno di riforma “ Cartabia,   rendono incerta.

Anche la figura dell’avvocato trarrebbe beneficio d’immagine dall’eliminazione della prescrizione e di ogni altra improcedibilità per decorso dei termini, perché è un luogo comune, difficile da modificare, che l’avvocato faccia di tutto nei confronti degli imputati clienti perché, se non può ottenere un’assoluzione nel merito, si maturi la prescrizione o l’improcedibilità, ricorrendo ad espedienti dilatori della durata del processo penale.

Gli stessi criteri sopra ipotizzati per rendere ragionevole la durata dei processi penali, potrebbero essere adoperati per i processi civili, rispetto ai quali peraltro non è mai esistito e tuttora non esiste uno strumento normativo di accelerazione della durata dei processi.

Anche per i processi civili si dovrebbe realizzare la medesima disciplina sopra prospettata per i processi penali: 1) predeterminazione della durata massima di ciascun grado di giudizio del cui rispetto siano responsabili i Giudici di ciascun grado del giudizio;  2) obbligo dello Stato di indennizzare automaticamente le parti per ogni giorno di ritardo rispetto al termine fissato per legge, con indennizzo crescente progressivamente in relazione all’accumularsi del ritardo; 3) obbligo dello Stato di verificare, mediante un procedimento amministrativo nei confronti dei Giudici nel cui grado di giudizio si è verificato il ritardo, i motivi che lo hanno causato;  4) eventuale azione di danno erariale da parte della Procura della Corte dei Conti territorialmente competente, laddove il ritardo sia stato determinato da colpa del Giudice; 5) copertura assicurativa obbligatoria dei Giudici rispetto ai ritardi, dovuti a colpa, verificatisi nei giudizi svolti; 6) rilevanza dei ritardi dovuti a colpa, rispetto ai termini di durata dei processi, nella valutazione di efficienza dei Giudici, e rispetto al loro avanzamento in carriera.

Il presidente del Centro Studi De Gasperi di Sciacca

Avv. Stefano Antonio Scaduto

Continua a leggere

CONSIDERAZIONI SUL PROSSIMO REFERENDUM DEL 20 E 21 SETTEMBRE 2020

La riforma costituzionale su cui saremo chiamati a pronunciarci il 20 e 21 settembre 2020 riguarda un solo aspetto: la riduzione numerica dei parlamentari. In particolare la riforma dell’art. 56, comma 2°, della Carta prevede la riduzione del numero dei deputati da 630 a 400, mentre la riforma dell’art. 57, comma 2°, della Carta prevede la riduzione dei senatori da 315 a 200. Con il referendum confermativo previsto dall’art. 138 della costituzione siamo chiamati a confermare o meno tale riforma. Il referendum è valido qualunque sia il numero dei partecipanti al voto. Con la riforma in questione, coloro che l’hanno approvata in Parlamento si sono proposti essenzialmente l’obiettivo di ottenere un risparmio di spesa, in risposta all’opinione che 945 parlamentari siano troppi e ci costino troppo. Un secondo obiettivo che i proponenti hanno dichiarato di perseguire è quello della semplificazione dei lavori parlamentari, sul presupposto che un numero inferiore di parlamentari renda più rapidi ed efficienti i lavori di Camera e Senato. La riforma non ha previsto nulla sulla modalità con cui, se dovesse essere approvata la riduzione numerica, saranno eletti in futuro i parlamentari. Tale aspetto è stato rinviato al varo di una nuova legge elettorale. Si può affermare quindi che, a fronte di una proposta di riduzione numerica dei parlamentari, noi cittadini italiani non abbiamo ricevuto dagli autori di tale riforma alcuna garanzia costituzionale su come verranno eletti in futuro i parlamentari, se avremo o no il potere di scelta effettiva dei singoli parlamentari. Da qui i seguenti interrogativi sulla futura modalità di elezione dei parlamentari: 1) saranno eletti attraverso un sistema elettorale maggioritario articolato in collegi uninominali in cui vi è la possibilità per i cittadini di scegliere uno fra i candidati in competizione ? 2) Saranno eletti con un sistema elettorale proporzionale con liste di partito “bloccate”, cioè senza possibilità per i cittadini di esprimere la preferenza per un candidato della lista scelta, oppure ai cittadini sarà riconosciuto il diritto di scelta effettiva del candidato più gradito, mediante la possibilità di esprimere una preferenza? Tali interrogativi non trovano risposta nella proposta di riforma costituzionale su cui siamo chiamati a pronunciarci. Alcuni autori della riforma già promettono che, se fosse approvata la riduzione costituzionale dei parlamentari, allora faranno di tutto per approvare una legge elettorale che dia ai cittadini il potere di scelta effettiva dei singoli parlamentari; inoltre si giustificano di non avere inserito in Costituzione nessuna disposizione sulla modalità di elezione dei parlamentari perché tale aspetto dovrebbe essere disciplinato esclusivamente dalla legge elettorale, che è una legge ordinaria, non costituzionale. Questa giustificazione non regge, e le promesse sono scritte sull’acqua. E’ vero che per le modalità di elezione dei parlamentari occorre una legge ad hoc, che è la legge elettorale, ma è vero che la Costituzione può prevedere vincoli e garanzie su come debba essere fatta una legge elettorale. Gli autori della riforma costituzionale in questione avrebbero ben potuto prevedere accanto alla riduzione numerica di deputati e senatori, una disposizione di garanzia che poteva essere scritta così: “la legge ordinaria che disciplina il sistema di elezione dei deputati e dei senatori attribuisce agli elettori il diritto di effettiva scelta di ciascuno dei parlamentari”. Sarebbe bastata una disposizione costituzionale scritta così per bilanciare la riduzione numerica dei parlamentari con la garanzia costituzionale che i parlamentari in futuro saranno eletti con una legge elettorale seria, che attribuisca ai cittadini il potere effettivo di elezione di ciascun parlamentare. Ma tale garanzia gli autori di questa riforma costituzionale non ce l’hanno data. E allora si può affermare che questa riforma costituzionale ha un grave difetto: a fronte della proposta di riduzione numerica dei parlamentari, che è un taglio di rappresentanti del popolo in seno ai due rami del Parlamento, non ha previsto alcuna disposizione costituzionale “compensativa” che garantisca ai cittadini il potere di scelta effettiva dei singoli parlamentari. Basterebbe solo questa considerazione per dire NO a tale riforma. Tornando alle promesse di una buona legge elettorale futura, i precedenti non lasciano ben sperare. Nel recente passato ben due leggi elettorali approvate dal Parlamento italiano sono state dichiarate in diverse parti delle stesse incostituzionali: 1) la legge elettorale n. 270/2005 comunemente nota come Porcellum, in quanto così denominata dal suo autore (il senatore della Lega Calderoli); 2) la legge n. 52/2015 nota come Italicum varata dalla maggioranza parlamentare guidata da Renzi. A seguito della dichiarata incostituzionalità dell’Italicum, è stata varata la legge elettorale tuttora vigente, la n. 165/2017, nota come Rosatellum, dal nome del suo principale proponente, Rosato, capogruppo del PD alla Camera dei deputati al momento dell’approvazione della legge, oggi esponente di Italia Viva. Secondo il giudizio concorde di politologi e commentatori politici, queste tre ultime leggi elettorali hanno avuto, nei propositi di coloro che le hanno elaborate, uno scopo comune: quello di avvantaggiare alle elezioni successive la propria parte politica e di danneggiare i partiti politici di opposizione. Anche le ipotesi di nuova legge elettorale attualmente allo studio, ancora una volta, secondo il commento di politologi e commentatori fra i più accreditati ( fra gli altri il prof. Roberto D’Alimonte, direttore responsabile del Centro Italiano di Studi elettorali) nascono dall’intenzione di impedire alle prossime elezioni la vittoria degli attuali partiti di opposizione. In questo quadro, di leggi elettorali elaborate con l’idea, non di scrivere regole serie nell’interesse dell’Italia, ma di approvare le regole che di volta in volta convengono alla propria parte politica, è anche possibile che, in caso di approvazione referendaria della riforma costituzionale di riduzione numerica dei parlamentari, il Parlamento non riesca ad approvare una nuova legge elettorale. In tale ipotesi, per la elezione dei 400 deputati e dei 200 senatori si applicherebbe con un aggiornamento tecnico la legge elettorale in vigore, cosiddetta Rosatellum, che al momento prevede, per quanto riguarda la Camera dei deputati, l’elezione di 630 deputati, di cui 386 in collegi plurinominali, 232 in collegi uninominali, 12 deputati nella circoscrizione Estero, e per quanto riguarda il Senato prevede attualmente l’elezione di 193 senatori in collegi plurinominali, 116 in collegi uninominali e 6 senatori nella circoscrizione Estero. Il Parlamento, in previsione dell’approvazione della riforma costituzionale, oggetto del prossimo referendum, con la legge n. 51/2019 ha già delegato il Governo ad adeguare la legge elettorale vigente, mediante la riduzione del numero dei deputati e dei senatori eletti nei collegi plurinominali e mediante la revisione del numero e del perimetro dei collegi uninominali sia per la Camera che per il Senato. Secondo l’analisi congiunta degli Uffici del Servizio Studi della Camera e del Senato (Dossier sulla riforma costituzionale del 19 agosto 2020), nell’ipotesi di un permanere in vigore dell’attuale legge elettorale unitamente all’eventuale conferma referendaria della riduzione numerica dei deputati a 400, in forza dell’aggiornamento tecnico della legge elettorale vigente al nuovo ridotto numero dei deputati, si avrebbero 245 deputati eletti nei collegi plurinominali, 147 nei collegi uninominali, e 8 deputati eletti dagli italiani all’estero. Per effetto di tale ripartizione, secondo tale analisi, ognuno dei 147 collegi uninominali avrebbe, secondo una media calcolata per ogni Regione, una popolazione molto elevata. In Sicilia, per esempio, un collegio uninominale per la Camera potrebbe avere in media una popolazione fino a 439.573 abitanti. Per quanto riguarda il Senato, per effetto della riduzione numerica dei senatori da 315 a 200, secondo lo studio, con l’aggiornamento tecnico della legge elettorale vigente si avrebbero 122 senatori eletti nei collegi plurinominali, 74 in collegi uninominali, 4 senatori eletti dagli italiani all’estero. Sulla base di tale ripartizione, secondo lo studio, ognuno dei 74 collegi uninominali avrebbe, secondo una media calcolata per ogni Regione, una popolazione elevatissima. In Sicilia, per esempio, un collegio uninominale per il Senato avrebbe in media una popolazione di 833.817 abitanti; conseguentemente, alcuni dei collegi uninominali per il Senato nascerebbero dall’accorpamento necessario dei territori di almeno due delle ex province.

Da tali dati emerge pertanto che, a legge elettorale invariata, l’eventuale approvazione della riforma costituzionale di riduzione numerica dei parlamentari avrebbe effetti distorsivi sulla rappresentanza, perché, soprattutto nei collegi uninominali di Camera e Senato, con un’incidenza particolarmente distorsiva nei collegi uninominali per il Senato, sarebbe troppo alto il numero di cittadini che ciascun parlamentare dovrebbe rappresentare, con conseguente aumento del distacco nel rapporto fra eletti ed elettori. L’effetto distorsivo che la riduzione numerica dei parlamentari avrebbe sulla rappresentanza, a riforma elettorale invariata, è un motivo per dire NO alla riforma, atteso che rimane incerto il varo di una nuova legge elettorale, che peraltro, dati i precedenti, potrebbe anche essere peggiore dell’attuale.

Gli autori della riforma costituzionale oggetto del prossimo referendum hanno sostenuto, come si è accennato all’inizio, che la riduzione numerica dei parlamentari avrebbe un effetto positivo in termini di maggiore efficienza dei lavori di Camera e Senato. In realtà, tale effetto potrebbe riguardare solo l’attività parlamentare all’interno di ciascuno dei due rami del Parlamento. E’ vero che un minor numero di deputati e di senatori potrebbe ridurre la quantità di interventi e di discussioni all’interno di ciascun ramo del Parlamento. Ma questo effetto nulla ha a che fare con l’efficienza complessiva del procedimento di formazione delle leggi che è rimasto totalmente invariato. Ogni testo di legge continuerà, come prima, a dovere essere approvato con lo stesso contenuto da Camera e Senato, e se una delle Camere avrà emendato il testo già approvato nell’altra, si dovrà tornare alla prima Camera, finché entrambe le Camere non avranno approvato un testo di legge identico. La riduzione numerica dei parlamentari non avrebbe quindi un effetto di semplificazione sul procedimento legislativo, ma avrebbe solo un limitato effetto di alleggerimento dei lavori interni a ciascuna Camera. Pertanto, anche l’effetto sostenuto dagli autori della riforma di una maggiore efficienza dei lavori di Camera e Senato è molto sovrastimato perché il procedimento legislativo, consistente nella doppia approvazione da parte di Camera e Senato del medesimo testo di legge, è rimasto totalmente invariato.

Conclusioni. La riforma costituzionale di riduzione numerica dei parlamentari, oggetto del prossimo referendum confermativo, persegue l’obiettivo principale di un risparmio di spesa per le casse dello Stato unitamente allo scopo secondario di un alleggerimento dei lavori interni a ciascun ramo del Parlamento.

Tale riforma ha un grave difetto: a fronte della riduzione numerica dei parlamentari, non ha previsto in favore dei cittadini elettori la garanzia costituzionale compensativa consistente nel vincolare il Parlamento al varo di una legge elettorale che riconosca ai cittadini elettori il diritto di scelta effettiva dei singoli parlamentari. La riforma costituzionale non si è occupata in sostanza del problema più importante nell’ambito del rapporto fra elettori ed eletti: garantire costituzionalmente agli elettori il potere di scelta effettiva dei singoli eletti. A tale grave difetto se ne aggiunge un altro: non sappiamo se ci sarà una nuova legge elettorale e come sarà, mentre sappiamo che, a legge elettorale invariata, la riduzione numerica dei parlamentari avrebbe un effetto distorsivo nel rapporto fra eletti ed elettori, soprattutto nei collegi uninominali, e con particolare gravità nei collegi uninominali per il Senato, consistente nel numero molto elevato di cittadini che ciascun parlamentare eletto nei collegi uninominali dovrebbe rappresentare, con conseguente aumento del distacco nel rapporto fra elettori ed eletti.

La riduzione numerica dei parlamentari potrebbe avere un limitato effetto di alleggerimento dei lavori all’interno di ciascuna Camera, ma non avrebbe alcun effetto sulla efficienza del procedimento legislativo nel suo insieme, il cui iter è rimasto invariato.

Per le ragioni sopra evidenziate, in occasione del prossimo referendum costituzionale del 20 e 21 settembre, si suggerisce di votare NO.

Documento approvato, a maggioranza, dall’associazione in data 13 settembre 2020. Sciacca, 14.09.2020

Il presidente del Centro Studi De Gasperi di Sciacca

Avv. Stefano Antonio Scaduto

Continua a leggere