Premessa.
La presentazione alle Camere del disegno di legge di attuazione del regionalismo differenziato introdotto dalla riforma costituzionale nel 2001 del Titolo V della Costituzione, rimasto finora inattuato.
Il governo Meloni ha presentato al Senato il disegno di legge, promosso dal ministro per gli Affari Regionali Calderoli, di attuazione del regionalismo cosiddetto differenziato previsto dall’art. 116, comma 3° della Costituzione, norma introdotta con la legge costituzionale n. 3/2001, nota come riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione.
Prima di esaminare tale disegno di legge, e di chiarire in che cosa consista il cosiddetto regionalismo differenziato, è opportuno una disamina di carattere generale della riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione, approvata nel 2001 da una risicata maggioranza parlamentare di centro sinistra che sosteneva il governo presieduto da Giuliano Amato. La riforma, non essendo stata approvata dai 2/3 dei componenti delle Camere, fu sottoposta a referendum confermativo, all’esito del quale in data 7 ottobre 2001, con una partecipazione di appena il 34,10 % degli aventi diritto al voto, ed il voto favorevole del 64,20% dei votanti, venne confermata.
I contenuti della riforma del titolo V della Costituzione che hanno già avuto esecuzione.
E’ opinione condivisa che la riforma del Titolo V della Costituzione rappresenti il passaggio da una Repubblica unitaria caratterizzata da un decentramento di tipo prevalentemente amministrativo, ad una Repubblica cosiddetta delle autonomie; la riforma del 2001 ha riconosciuto piena soggettività politica agli enti territoriali, (Regioni, province e Comuni) che prima erano considerati solo parzialmente autonomi, dipendendo in larga parte dal punto di vista finanziario dai trasferimenti statali, ed ha introdotto una nuova categoria di ente territoriale: le Città metropolitane.
L’aspetto più rilevante della riforma ha riguardato una nuova ripartizione della funzione legislativa fra Stato e Regioni a statuto ordinario (vedi l’art. 117 della Costituzione) con l’attribuzione allo Stato e alle Regioni a statuto ordinario di una potestà legislativa concorrente su un’ampia gamma di materie, fra cui sanità ed istruzione, in cui il criterio di riparto consiste nell’attribuzione allo Stato della definizione con legge dei principi fondamentali, ed il conferimento alle Regioni della effettiva disciplina normativa di tali materie con leggi regionali, nel quadro della cornice dei principi fondamentali fissati dallo Stato; inoltre, allo Stato è stata attribuita una potestà legislativa esclusiva su materie tassativamente elencate, fra le quali la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, mentre alle Regioni a statuto ordinario è stata conferita una potestà legislativa esclusiva di tipo residuale su tutte quelle materie su cui non è stata espressamente assegnata o ripartita la competenza fra Stato e Regioni.
Dalla distribuzione della potestà legislativa operata dalla riforma del Titolo V della Costituzione, consegue che nel nuovo ordinamento istituzionale la potestà legislativa più ampia appartiene, nei singoli territori regionali, alle Regioni.
A completare e a dare effettività a tale nuovo ordinamento policentrico della Repubblica è il riformato articolo 119 della Costituzione che ha conferito ai Comuni, province, citta metropolitane e alle Regioni, autonomia finanziaria di entrata e di spesa, con attribuzione della potestà di applicare tributi ed entrate propri, nonché di essere compartecipi al gettito di tributi erariali dovuti nel loro territorio. Tale compartecipazione rappresenta nell’ambito della riforma costituzionale del 2001 un’attuazione del c.d. federalismo fiscale tanto caro alla Lega Nord, che per anni ha combattuto contro il trasferimento di risorse dalle regioni del Nord alle regioni del Sud, attuato soprattutto con lo strumento della Cassa per il Mezzogiorno, stigmatizzando la Roma “ladrona”, simbolo, nella narrazione leghista soprattutto degli anni 90, del Governo centrale appropriatore di risorse del nord e distributore delle stesse al sud; sin dai suoi albori la Lega ha sempre rivendicato che agli enti territoriali fosse riconosciuto, oltre al potere di istituire tributi propri, anche di trattenere sul proprio territorio una quota dei tributi erariali dovuti dai contribuenti residenti o aventi sede in quel territorio.
Fra le caratteristiche della riforma costituzionale del 2001 vi è la scomparsa del potere di cui era titolare il Governo nazionale di valutare se una legge approvata da un Consiglio regionale fosse contraria in termini di contenuto agli interessi nazionali o a quelli di altre Regioni, e, in caso di ritenuto contrasto, di rinviare la legge al Consiglio regionale per un nuovo esame, nonchè di provocare nel caso di una seconda approvazione della legge regionale, la questione di merito del contrasto della stessa con gli interessi nazionali o di altre Regioni davanti alle Camere.
La riforma costituzionale del 2001 ha invece attributo al Governo nazionale un potere sostitutivo nei confronti degli enti territoriali, prevedendo all’art. 120, comma 2°, della Costituzione che: “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”.
L’eliminazione in Costituzione della Questione Meridionale.
La riforma del 2001 segna inoltre l’abbandono politico nella sede normativa più alta del nostro ordinamento, qual è la Costituzione della Repubblica, di quella questione meridionale che i padri costituenti del 1948 avevano ritenuto di fondamentale importanza. Ne sono prova l’eliminazione nell’art. 119 della Costituzione del riferimento al “ Mezzogiorno” che era ivi citato, unitamente alle “Isole” e la conseguente abolizione della norma che prevedeva l’assegnazione di risorse da parte dello Stato alle singole Regioni del Mezzogiorno e alle Isole, ai fini della loro valorizzazione, realizzando scopi determinati. All’abbandono anche in sede costituzionale del Mezzogiorno ha corrisposto la previsione, nel nuovo terzo comma dell’art. 119, di un fondo perequativo, da istituirsi per legge, a beneficio, senza vincoli di destinazione, dei territori con minore capacità fiscale, in tal modo allargando i possibili beneficiari di tale fondo perequativo anche a singoli territori del centro e del Nord, stante la citata eliminazione della delimitazione geografica al “ Mezzogiorno e alle “Isole” dei possibili destinatari dei fondi speciali precedenti, consentiti dalla Costituzione del 1948.
Senza alcun dubbio, sul piano politico, la riforma costituzionale del 2001, benché sia stata approvata da una maggioranza parlamentare di centro-sinistra, ha segnato la vittoria delle istanze politiche della Lega Nord. Volendo trovare un senso al perché una riforma tanto propugnata da una forza politica che nel 2001 era all’opposizione, essa sia stata invece approvata su impulso di una maggioranza parlamentare di orientamento opposto, si può ipotizzare che lo scopo perseguito dai suoi promotori politici, e fra questi in primo luogo il Presidente del Consiglio Amato e Veltroni, segretario a quel tempo dei democratici di sinistra, fosse quello di svuotare in favore del centro-sinistra il bacino di consenso di cui, proprio sulla base delle istanze autonomiste e federaliste recepite con tale riforma, godeva la Lega nelle regioni del Nord, ovvero, in alternativa, quello di attrarre la Lega in un’alleanza politica con il centro-sinistra alle elezioni politiche, immediatamente successive all’approvazione parlamentare della riforma.
Se tali erano gli scopi “politici” perseguiti dagli ispiratori di tale riforma costituzionale risulta evidente che tale disegno politico non ha conseguito nessuno di tali obiettivi.
Negativi, invece, appaiono a venti anni di distanza gli effetti che la riforma del Titolo V della Costituzione ha prodotto sull’Italia, sul senso dell’unità nazionale, anche a causa del contenzioso istituzionale sviluppatosi davanti alla Corte Costituzionale (soprattutto nei primi anni successivi al 2001) fra Stato e Regioni in sede di attuazione del nuovo riparto della potestà legislativa; ancor più negativi appaiono gli effetti di tale riforma sul piano sociale, e soprattutto nelle Regioni del centro sud, per il venir meno di una tutela uniforme su tutto il territorio nazionale di fondamentali diritti individuali e sociali, fra i quali in primo luogo il diritto alla salute, nonché sulla efficace gestione di importanti servizi relativi alla tutela dei diritti civili e sociali, a cominciare da quello a più forte impatto sociale, quale è il Servizio Sanitario Nazionale.
Gli effetti della riforma del Titolo V della Costituzione sul diritto alla salute.
Concentrando ora l’attenzione sugli effetti che la riforma del Titolo V della Costituzione ha prodotto sulla tutela della salute, riconosciuto dall’art. 32 della Costituzione come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività, si può affermare che, per effetto di tale riforma costituzionale, il Servizio Sanitario Nazionale è stato notevolmente indebolito a causa della competenza più ampia attribuita alle Regioni in materia di sanità, con conseguente rafforzamento, a scapito del Servizio Sanitario nazionale, dei 20 Servizi sanitari regionali, corrispondenti al numero delle Regioni d’Italia.
Il Titolo V della Costituzione, prima della riforma del 2001, attribuiva alle Regioni a statuto ordinario la potestà legislativa concorrente limitatamente alla assistenza sanitaria ed ospedaliera, nel quadro dei principi fondamentali stabiliti con legge dello Stato. La potestà legislativa delle Regioni non riguardava quindi in toto la materia della “tutela della salute”, formula più ampia con cui la riforma del 2001 ha accresciuto la sfera di competenza della potestà legislativa delle Regioni in materia di sanità. In particolare, della materia di “ assistenza sanitaria ed ospedaliera” non facevano parte le funzioni di programmazione e di gestione della sanità, pur se un processo di regionalizzazione era stato introdotto già in precedenza da leggi ordinarie a costituzione invariata.
Per effetto della riforma del 2001, invece, anche le funzioni di programmazione organizzazione e di gestione della sanità in sede regionale, quelle che oggi vengono comunemente definite “governance”, sono stata assegnate alle Regioni, e il campo di competenza della legislazione statale è stato ristretto alla previsione dei principi fondamentali ed alla determinazione dei livelli essenziali di assistenza (cosiddetti Lea), in materia di prestazioni sanitarie.
La legittimazione costituzionale di diversi livelli di qualità delle prestazioni sanitarie nelle varie regioni d’Italia, con la salvaguardia da parte dello Stato di un’eguaglianza dei cittadini sul territorio nazionale limitata ai soli livelli essenziali, di base.
Peraltro, l’attribuzione allo Stato, con la riforma costituzionale del 2001, della potestà legislativa esclusiva rispetto alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, fra cui la sanità, ha legittimato a monte, al più alto livello normativo della Repubblica, la possibilità che esista una disuguaglianza nell’erogazione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, perché, nel garantire l’uniformità dei livelli essenziali, ha presupposto la possibilità di livelli diversi di qualità delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, e quindi la possibilità di diversi livelli di qualità delle prestazioni sanitarie nelle varie Regioni d’Italia, ove la tutela dell’uniformità su tutto il territorio nazionale si ferma alla salvaguardia di una qualità minima avente il connotato dell’essenzialità di base.
L’attuazione del federalismo fiscale di cui al riformato Titolo V della Costituzione, l’intensificarsi di una regionalizzazione della sanità con 20 servizi sanitari regionali aventi quantità differenti di risorse disponibili, ed il progressivo indebolimento del Servizio Sanitario Nazionale.
L’attuazione del federalismo fiscale è avvenuta lungo le seguenti direttrici di marcia: riduzione dei trasferimenti statali alle Regioni e agli altri enti territoriali; aumento progressivo della autonomia di entrata e di spesa delle Regioni e della compartecipazione delle stesse al gettito dei tributi nazionali, al fine di consentire alle Regioni il finanziamento delle più ampie funzioni e competenze loro assegnate dalla riforma del titolo V della Costituzione.
Il finanziamento della spesa sanitaria nelle singole Regioni proviene dal gettito di entrate proprie regionali, delle addizionali regionali all’Irpef, dal ricavato dei tickets sanitari, da una compartecipazione al gettito dell’Iva. A tal riguardo, la compartecipazione delle Regioni ordinarie al gettito dell’Iva, stabilita annualmente con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, è passata dalla misura del 38,55 per cento (così determinata per l’anno 2001) al 70,14 per cento per l’anno 2020 a seguito di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri Draghi.
Dalla compartecipazione delle singole Regioni al gettito Iva, vengono tolte annualmente alle Regioni più ricche quote non predeterminate che finanziano un fondo perequativo, a beneficio di quelle Regioni, il cui gettito tributario complessivo è insufficiente a garantire il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, fra cui la spesa sanitaria, così da garantire i livelli essenziali delle prestazioni.
Come si può notare, il sistema di finanziamento della spesa sanitaria nelle singole Regioni è molto articolato e complesso, e con riguardo alle cosiddette quote perequative di cui beneficiano le Regioni il cui gettito tributario complessivo è insufficiente a finanziare i livelli essenziali di assistenza, si tratta di quote non fisse, ma variabili di anno in anno, sicché non esiste un quadro finanziario certo della perequazione.
I principi cardine del sistema sanitario italiano, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione e dell’attuazione del federalismo fiscale.
L’impalcatura del sistema sanitario italiano si fonda sul fabbisogno sanitario nazionale standard che è l’ammontare delle risorse necessarie a garantire in tutte le Regioni i livelli essenziali di assistenza ed è il risultato della somma dei fabbisogni sanitari regionali standard. La determinazione dei singoli fabbisogni sanitari regionali e di quello nazionale, seppure la relativa normativa affermi che la loro determinazione è finalizzata alla garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni sanitarie risulta però condizionata, con espressa previsione di legge, al rispetto dei vincoli di finanza pubblica e degli obblighi di ordine finanziario assunti dall’Italia a livello di Unione europea (rispetto del c.d. Patto di Stabilità), sicché certamente il quadro delle risorse finanziarie che ogni Governo ha deciso di volta in volta di individuare come tetto massimo, a copertura del fabbisogno sanitario nazionale standard, ha certamente condizionato poi la effettiva individuazione dei fabbisogni sanitari regionali standard che avviene di concerto fra Governo nazionale e governi regionali, abbassando nel corso del tempo, con la sola eccezione degli anni della crisi pandemica, l’ammontare di tali fabbisogni, ma non perché essi si siano ridotti rispetto ai bisogni sanitari delle popolazioni, ma a causa di un progressivo taglio dell’ammontare delle risorse pubbliche individuate a monte come tetto massimo da destinare alla Sanità nel suo insieme.
Un altro elemento cardine del sistema sanitario nazionale è dato dai cosiddetti costi standard delle prestazioni e servizi sanitari, che concorrono a determinare i fabbisogni sanitari regionali e di risulta il fabbisogno sanitario nazionale, a monte già condizionati dai vincoli di finanza pubblica. La normativa al riguardo prevede, in sintesi, che i costi di prestazioni e servizi sanitari nelle singole Regioni (che determinano i fabbisogni sanitari regionali) siano individuati con riferimento ai costi standard delle tre Regioni italiane, individuate dalla Conferenza Stato- Regioni come quelle che hanno saputo garantire meglio, rispetto a tutte le altre Regioni d’Italia, i livelli essenziali di assistenza, con prestazioni appropriate, e che siano al tempo stesso in equilibrio economico.
Tale sistema di individuazione dei fabbisogni sanitari di tutte le Regioni, parametrato sui costi standard delle tre Regioni d’Italia più efficienti ed in equilibrio economico, ha determinato un abbassamento forzato dei fabbisogni sanitari di quelle Regioni, che avevano in materia di sanità una spesa storica più alta. Ma in linea di massina, tale abbassamento forzato non ha reso tali Regioni più efficienti; al contrario il cambio di sistema le ha penalizzate, danneggiando di conseguenza i cittadini di tali Regioni, perché, a fronte di una riduzione in termini contabili dell’ammontare di risorse ritenuto a livello nazionale per esse necessario e sufficiente a garantire i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie, tali Regioni hanno continuato di fatto, data la rigidità dei bilanci pubblici, a sostenere un livello di spesa sanitaria reale superiore ai costi standard delle tre Regioni più efficienti, essendo quello dei costi standard un parametro contabile, che non poteva essere d’improvviso calato ed imposto dall’alto; conseguentemente esse hanno spesso sforato, nella spesa reale, il modello dei fabbisogni sanitari standard con conseguente inevitabile disavanzo sanitario rispetto a quei fabbisogni forzatamente stabiliti per tutte le Regioni sul modello di tre.
Ma alla base del disavanzo sanitario di diverse regioni italiane, oltre a quanto sopra, vi è un’altra causa ancor più grave ed è rappresentata dai costi per le Regioni (i cui servizi sanitari non garantiscono prestazioni sanitarie appropriate rispetto a molte patologie) del cosiddetto diritto alla mobilità. Si tratta del “diritto dei cittadini italiani ad essere assistiti in strutture sanitarie di Regioni differenti da quella di residenza, un diritto che si traduce nel cosiddetto fenomeno della mobilità sanitaria interregionale. Tecnicamente viene distinta in mobilità attiva (una voce di credito della Regione che identifica l’indice di attrazione) e mobilità passiva (una voce di debito che rappresenta l’indice di fuga da una Regione)”.[1] I servizi sanitari regionali che attraggono cittadini di altre Regioni per prestazioni sanitarie in strutture del loro territorio hanno diritto al rimborso dalla Regione di provenienza del costo delle prestazioni, il che ha determinato per un verso l’incremento di entrate per i servizi sanitari regionali qualitativamente migliori, e un incremento enorme di spese del bilancio sanitario delle Regioni da cui i residenti si trasferiscono in altre Regioni per l’effettuazione di cure e prestazioni. Secondo la fondazione Gimbe “dall’analisi della mobilità attiva e passiva emerge la forte capacità attrattiva delle Regioni del Nord, cui corrisponde quella estremamente limitata delle Regioni del Centro-Sud. In particolare, un recente report della Corte dei Conti ha documentato che nel decennio 2010- 2019 – corrispondente al riparto del Fondo Sanitario Nazionale per gli anni dal 2012 al 2021 – 13 Regioni, quasi tutte del Centro Sud, risultano essere le meno attrattive per i cittadini e hanno accumulato un saldo negativo pari a € 14 miliardi. (c.f.r pag.12 del Report Osservatorio GIMBE n. 1/2023 in https://www.gimbe.org/
Si possono allora comprendere le cause dei disavanzi sanitari di diverse Regioni italiane.
A decorrere dal 2007, le Regioni in stato di disavanzo sanitario sono sottoposte ad un Piano di riorganizzazione, riqualificazione e potenziamento del servizio sanitario regionale (c.d. Piano di rientro, introdotto normativamente per la prima volta con la legge finanziaria del 2004 per il 2005), il cui completamento è condizione per l’accesso a risorse aggiuntive e di una quota premiale del finanziamento del SSN.
L’esperienza de Piani di rientro, il cui scopo è quello sia di ristabilire l’equilibrio economico- finanziario che di garantire l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza, ha dimostrato che vi sono Regioni in permanente Piano di Rientro, come, solo per fare un esempio, la Sicilia, che ha iniziato il suo Piano di rientro nell’ormai lontano 2007 e lo ha proseguito, senza soluzione di continuità, fino ad oggi, non intravedendosi peraltro anche nell’immediato futuro alcuna uscita da tale condizione, mentre altre regioni, come la Calabria, in aggiunta al Piano di rientro sono state sottoposte al Commissariamento; tali fatti dimostrano il fallimento, soprattutto per le Regioni del Sud, di tutta l’impalcatura del federalismo fiscale, con particolare riguardo al finanziamento dei servizi sanitari regionali. Basti pensare che delle 10 Regioni italiane che nel 2007 sono state sottoposte a Piano di rientro, 7 e tutte del centro-sud sono tuttora in Piano di rientro[2] e due sono commissariate; risulta pertanto evidente che uno strumento, come il Piano di rientro, concepito per avere una durata limitata nel tempo, è divenuto per diverse Regioni italiane uno strumento di permanente e pesante condizionamento sul piano economico-finanziario dei loro servizi sanitari.
Se questo è il quadro economico, il nuovo assetto della sanità, che è emerso dalla riforma costituzionale del 2001 in poi, ha registrato un crescere delle disuguaglianze regionali con riguardo alla salvaguardia dei livelli essenziali di assistenza sanitaria, con un sostanziale fallimento della prerogativa che lo Stato ha riservato a sé, di garantire i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale.
In un suo report di analisi e valutazione relativo al mantenimento dei Livelli essenziali di assistenza nelle Regioni italiane, con riferimento all’arco temporale dal 2010 al 2019 la Fondazione indipendente GIMBE (Gruppo Italiano Medicina basata sull’evidenza) ha evidenziato, (peraltro sulla base dei dati tardivamente pubblicati dal Ministero della Salute per ciascuno degli anni dal 2010 al 2019 relativi alla valutazione del mantenimento dei LEA nelle Regioni italiane) il divario esistente fra le Regioni del Nord Italia e le Regioni del centro-sud rispetto all’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (cfr. Report Osservatorio Gimbe n.2/2022 dal titolo significativo: “ Livelli essenziali di assistenza: le diseguaglianze regionali in sanità” https://www.gimbe.org/). In particolare, nelle tabelle riportanti i punteggi conseguiti dalle Regioni in relazione al monitoraggio del Ministero della Salute sul mantenimento dei Livelli essenziali di assistenza, i risultati indicano che nessuna delle Regioni del sud occupa in tale “graduatoria” le prime dieci posizioni lungo il corso del decennio 2010-2019.
Il report della fondazione Gimbe evidenzia che, a fronte di un Servizio Sanitario Nazionale fondato sui principi di equità ed universalismo, l’Italia di oggi presenta inaccettabili diseguaglianze regionali.
Il disegno di legge di attuazione del regionalismo differenziato: i suoi effetti generali definibili come un colpo di piccone all’unità nazionale, e i suoi effetti sulla sanità.
Gli effetti negativi già prodotti dalla riforma costituzionale del 2001 potrebbero ulteriormente accrescersi con l’attuazione del regionalismo differenziato, anch’esso introdotto con la riforma del 2001 nel comma 3° dell’art. 116 della Costituzione, e rimasto finora inattuato. Tale norma prevede la possibilità di attribuire con legge dello Stato alle Regioni ordinarie “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” nelle materie attribuite dall’art. 117, comma 3° Cost. alla potestà legislativa concorrente, (fra queste la sanità) nonché persino su alcune delle materie attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato dall’art. 117, comma 2°, e precisamente sulle materie dell’organizzazione della giustizia di pace, delle norme generali sull’istruzione, della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
La legge di attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia alle singole Regioni può essere approvata solo previa iniziativa da parte della singola Regione, interessata a ricevere ulteriore autonomia nelle materie indicate, ed è approvata dalla maggioranza assoluta dei componenti delle Camere, sulla base di un’intesa fra lo Stato e la Regione interessata.
Il Governo Meloni, ha presentato al Senato lo scorso 23 marzo 2023, attraverso il Ministro per gli affari regionali Calderoli che ne è il principale ispiratore, il disegno di legge n. 615/2023 contenente “le disposizioni di attuazione del regionalismo differenziato in attuazione dell’art. 116 comma 3, della Costituzione. Tale disegno di legge è stato presentato per essere discusso e approvato come allegato alla legge finanziaria del dicembre 2023, il che costituisce un’anomalia, considerato che di per sé tale disegno di legge non contiene disposizioni di natura finanziaria. Il ministro Calderoli o l’intero governo Meloni potrebbe avere scelto questa procedura, come espediente, per evitare il controllo di costituzionalità del Presidente della Repubblica in sede di eventuale promulgazione della legge approvata come allegato alla legge finanziaria. Infatti, sarebbe pressoché impossibile per il Presidente della repubblica rinviare tale legge alle camere, trattandosi di un allegato alla legge finanziaria, che una volta approvata, non potrebbe essere che immediatamente promulgata, a pena di incorrere nell’esercizio provvisorio.
La finalità di tale disegno di legge, secondo le dichiarazioni del Ministro Calderoli, è di dare attuazione in modo ordinato al percorso di attuazione del regionalismo differenziato di cui all’art. 116 comma 3° della Costituzione, disciplinando tutto il procedimento di trattative e di intesa fra lo Stato e la singola Regione per l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, nonché quella, sempre secondo le dichiarazioni del Ministro agli affari regionali, di coinvolgere attivamente il Parlamento nel percorso di preparazione e conclusione dell’intesa Stato- singola Regione interessata, e di successiva approvazione con legge.
In realtà, contrariamente alle dichiarazioni del Ministro, le norme del disegno di legge prevedono un ruolo marginale del Parlamento che si riduce alla facoltà da parte delle Commissioni parlamentari competenti sulle materie oggetto di ulteriore trasferimento di competenze dallo Stato alla Regione richiedente, di esprimere un mero atto di indirizzo sullo schema preliminare di intesa entro 60 giorni dalla trasmissione dello stesso alle Camere; il che significa che le Commissioni parlamentari competenti non possono dare parere negativo sull’intesa preliminare fra Stato e singola Regione, ma solo dare indicazioni non vincolanti per la stesura dell’intesa definitiva; peraltro, trattandosi di mera facoltà, in assenza di atto di indirizzo delle commissioni parlamentari competenti entro 60 giorni dalla ricezione della preintesa fra Governo e Regione, il procedimento va avanti e il Parlamento si limiterà ad approvare o meglio a ratificare con legge, senza alcuna possibilità di emendamenti, il testo dell’intesa definitiva, così come conclusa fra il Presidente del Consiglio dei ministri ed il Presidente della regione interessata.
Come previsto dall’art. 116,comma 3° della Costituzione, possono essere attribuite alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni una, alcune, ma anche tutte le 23 materie attribuite, al momento, dall’art. 117 comma 3 della Costituzione alla potestà legislativa concorrente fra Stato e Regioni, nonché anche le materie dell’organizzazione della giustizia di pace, delle norme generali sull’istruzione, della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, attualmente oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato.
L’attuazione del regionalismo differenziato, detto anche asimmetrico, potrebbe dar vita ad un ordinamento del riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni totalmente disomogeneo, con lo Stato che potrebbe avere una potestà di legiferare estremamente variabile, quanto ad oggetto e materie, da Regione a Regione, mantenendo un nucleo limitato di materie riservate alla sua potestà legislativa esclusiva, e perdendo la potestà di determinare i principi fondamentali nell’ambito di singoli territori regionali rispetto ad alcune o a tutte le materie che sono state individuate dall’art. 116, comma 3°, come suscettibili di essere attribuite alla potestà legislativa piena delle singole Regioni che richiedono ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Ne verrebbe fuori, come risultato, un quadro istituzionale alquanto confuso e disordinato, che determinerebbe un ulteriore grave indebolimento dell’unità nazionale, considerato che base di una salda unità nazionale dovrebbe essere il chiaro ed uniforme riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, potendosi ragionevolmente derogare ad un quadro uniforme di riparto di competenze fra Stato e Regioni, attraverso l’attribuzione di un’autonomia speciale ad un numero limitato di Regioni, proprio come fecero i padri costituenti nel 1948; alle cinque regioni alle quali nel 1948 furono concessi statuti speciali, approvati con leggi costituzionali, l’autonomia speciale, differenziata rispetto a tutte le altre Regioni, fu concessa per ragioni storiche, geografiche, di tutela di minoranze linguistiche, ossia per ragioni davvero speciali, mentre la prospettiva del regionalismo differenziato di cui all’art. 116, comma 3, della Costituzione come approvato nel 2001, nel caso di una sua attuazione, è quella di attribuire autonomia speciale ad ognuna di tutte le 20 regioni italiane, di fatto vanificando la sussistenza stessa, come categoria concettualmente significativa, degli storici statuti speciali delle 5 Regioni d’Italia, cui fu attribuita nel 1948 l’autonomia speciale.
A proposito delle 5 Regioni storicamente a Statuto speciale (Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige e Val d’Aosta), un articolo del disegno di legge Calderoli di attuazione del regionalismo differenziato prevede che ad esse si applichi l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, che prevede che anche le regioni a statuto speciale possano, sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, chiedere anch’esse la conclusione di intese con lo Stato, per l’attribuzione alle stesse di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia nelle materie indicate nell’art. 116, comma 3° della costituzione; ne consegue che le Regioni a statuto speciale potrebbero avere una potestà legislativa in parte determinata dagli statuti speciali, approvati con leggi costituzionali, ed in parte una potestà legislativa su ulteriori materie, sulla base di leggi approvate, previa intesa con lo Stato, con la maggioranza assoluta dei componenti delle Camere, non aventi però il rango delle leggi costituzionali (anche questa una stonatura di tutta la riforma costituzionale del 2001 ed un ulteriore colpo potenziale all’unità nazionale).
L’attuazione del regionalismo differenziato prefigurata dal disegno di legge Calderoli si caratterizza per la sua precarietà nel tempo; vi si prevede infatti che l’intesa fra stato e Regione per l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, nelle materie individuate dall’art. 116, comma 3°, della Costituzione, debba avere una durata non superiore a 10 anni (potendo essere di durata inferiore); inoltre l’intesa è modificabile, prima della scadenza in essa fissata, mediante lo stesso procedimento che ne ha portato all’approvazione con legge, ampliando o diminuendo l’ambito dell’autonomia della singola Regione; si prevede altresì che ciascuna intesa preveda i casi e le modalità con cui lo Stato o la Regione possono chiedere, anche prima della sua scadenza, la cessazione della sua efficacia, da deliberarsi con legge approvata dalla maggioranza assoluta dei componenti le Camere. Il disegno di legge prevede ancora che alla scadenza della durata prevista dell’intesa (come visto non superiore a 10 anni) essa, nel silenzio reciproco Stato-Regione, venga prorogata della stessa durata, salvo diversa volontà dello Stato o della Regione manifestata almeno 12 mesi prima della scadenza.
Risulta allora evidente che il disegno di legge Calderoli intende conferire alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui all’art. 116, comma 3°, della Costituzione, i connotati della temporaneità, della modificabilità ampliativa o riduttiva, con la possibilità di una cessazione prima della scadenza, con prorogabilità alla scadenza salvo recesso, quasi che le competenze legislative fossero oggetto di un comodato, o di un appalto, con tutte le conseguenti incertezze che derivano da tale precarietà, e risultando tristemente evidente che il motivo di fondo alla base di tali caratteristiche è dare la possibilità alle Regioni, che abbiano chiesto ed ottenuto ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, di valutare se, alla prova dei fatti, la maggiore autonomia ricevuta sia stata per esse conveniente, utile, con riferimento al territorio delle singole regioni, secondo una logica di egoismo territoriale; in tal modo, se durante gli anni di attuazione le singole Regioni ritenessero che la maggiore autonomia richiesta e conseguita non convenga sul piano economico, esse hanno la possibilità di chiederne la sua cessazione durante la sua efficacia, ovvero di modificare l’intesa alla scadenza secondo nuove convenienze di tipo territoriale regionale, ovvero di recedere con un preavviso di 12 mesi, dall’intesa stessa, in quest’ultimo caso secondo uno schema normativo tipico dei contratti di locazione commerciale, che rappresenta un fatto assolutamente inedito e abnorme rispetto al rapporto fra istituzioni.
Il modo con cui il disegno di legge Calderoli presentato al Senato della Repubblica intende attuare il regionalismo differenziato di cui all’art. 116, comma 3, della costituzione, è quello di “ ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” a tempo, continuamente rinegoziabili, ampliabili o riducibili, financo cessabili molto prima del termine finale della loro durata pattuita, o da cui si può recedere, previa disdetta da comunicarsi 12 mesi prima della scadenza prevista, il tutto secondo una logica di convenienza egoistico-territoriale delle singole Regioni.
Sono pertanto pienamente condivisibili le considerazioni negative sul progetto di legge Calderoli del politologo Ernesto Galli della Loggia, che sulle colonne del Corriere della Sera ha affermato in modo netto che “ il progetto di legge Calderoli costituisce un formidabile colpo di piccone contro ciò che ancora sopravvive del nostro Stato e dell’unità della nazione”[3].
Il nodo delle risorse e l’inattendibilità della norma dell’art. 8 del disegno di legge Calderoli sulla invarianza finanziaria delle risorse destinate alle Regioni che non chiederanno ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia.
Il trasferimento alle Regioni di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia nelle materie di cui all’art. 116 comma 3, della Costituzione richiede la necessità di un loro finanziamento. Al riguardo il disegno di legge Calderoli prevede non che le Regioni provvedano da sé con nuovi tributi in sede territoriale a finanziare tali nuove attribuzioni di competenze, ma che il finanziamento avvenga mediante compartecipazione al gettito di tributi erariali maturatisi nel singolo territorio regionale, e tale compartecipazione, si badi bene, può essere diversa da Regione a Regione, a seconda della quantità e qualità delle ulteriori materie attribuite, mediante intesa approvata con legge, alle singole Regioni. Non a caso, il disegno di legge Calderoli prevede che la determinazione della quota di compartecipazione della singola Regione al gettito di tributi erariali dovuti nel suo territorio avverrà a cura di una Commissione paritetica fra rappresentanti dello Stato e della singola Regione, e sarà fissata in ciascuna delle singole intese fra Stato e Regioni. Tale compartecipazione al gettito di tributi erariali, da parte delle singole Regioni che avranno ottenuto la maggiore autonomia di cui all’art. 116, comma 3, della Costituzione, ridurrà inevitabilmente, in termini di quantità di risorse disponibili, il bilancio dello Stato, e la possibilità da parte dello Stato di distribuire risorse in un’ottica perequativa alle Regioni che non avranno voluto chiedere la maggiore autonomia del cosiddetto regionalismo differenziato. Sul punto, il disegno di legge Calderoli prevede una norma con cui si afferma una garanzia di invarianza finanziaria delle risorse a beneficio delle Regioni che non avranno voluto ampliare la propria autonomia. Si tratta di una dichiarazione di principio, che però contrasta con la nuda realtà dei fatti. La riduzione quantitativa delle risorse in entrata per lo Stato, determinerà inevitabilmente una minore capacità dello Stato stesso di distribuire risorse alle altre Regioni, e ai relativi enti locali, sicché la norma sulla invarianza finanziaria appare inattendibile in quanto contrastante con le inevitabili conseguenze di ordine finanziario derivanti per lo Stato dall’attuazione del regionalismo differenziato, come previsto dal progetto di legge Calderoli.
Gli effetti dell’attuazione del regionalismo differenziato sulla tutela del diritto alla salute. I rischi di un ulteriore peggioramento delle disuguaglianze regionali in materia di sanità, con colpo di grazia definitivo sul Servizio sanitario nazionale.
Nel suo Report Osservatorio n.1/2023 dal titolo “ Il regionalismo differenziato in sanità” la Fondazione Gimbe ha messo bene in evidenza che il disegno di legge Calderoli di attuazione del regionalismo differenziato rappresenterebbe il colpo di grazia di quel che resta del Servizio Sanitario Nazionale. Il fatto che, già dall’ottobre del 2017, le prime Regioni ad avviare le trattative con il Governo nazionale ( a quel tempo Governo Gentiloni) per l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, anche in materia di sanità, siano state le tre Regioni con le migliori prestazioni sanitarie a livello nazionale, (ossia l’Emilia-Romagna, la Lombardia ed il Veneto) rappresenta un campanello d’allarme rispetto al rischio di un ulteriore peggioramento del livello delle diseguaglianze regionali in materia di tutela del diritto alla salute dei cittadini italiani. Vogliono sempre più far da sole in materia di sanità le Regioni che già funzionano meglio delle altre, negoziando per sé stesse con lo Stato l’attribuzione non sole di maggiore autonomia in materia di sanità ma anche di maggiori risorse statali, atteso che il disegno di legge Calderoli di attuazione del regionalismo differenziato prevede, come già chiarito, che il finanziamento di tale maggiore autonomia, avvenga con la compartecipazione delle singole Regioni, che l’avranno ottenuta, al gettito di tributi erariali maturatisi nel loro territorio, con inevitabile diminuzione di entrate nel bilancio statale, e ridotta possibilità per lo Stato, in un’ottica distributiva, di garantire finanziariamente i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie, nelle altre Regioni più povere, soprattutto del centro-sud.
Dal testo dei tre accordi preliminari conclusi nel febbraio 2018 rispettivamente da Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, con lo Stato italiano, rappresentato dal Governo Gentiloni, ai fini dell’attribuzione a ciascuna di tal regioni di ulteriore forme e condizioni particolari di autonomia in alcune o tutte ( è il caso del Veneto) le materie indicate dall’art. 116, comma 3, della costituzione, si evince, per quanto riguarda la materia della sanità, rispetto alla quale tutte e tre le regioni citate chiedono maggiore autonomia, che esse chiedono, fra l’altro:
- di non essere sottoposte ai vincoli del tetto di spesa stabiliti dalla normativa statale per il personale sanitario;
- che vogliono regolare da sé l’accesso alle scuole di specializzazione;
- che vogliono avere l’autonomia di stipulare contratti di specializzazione-lavoro con medici specializzandi, in modo da fronteggiare la carenza di personale sanitario;
- maggiore autonomia nelle funzioni relative al sistema tariffario, di rimborso, di remunerazione e di compartecipazione alle spese sanitarie dei cittadini, limitatamente agli assistiti residenti nella Regione;
- maggiore autonomia nella definizione del sistema di governance delle aziende e degli enti del SSN;
- avere competenza a programmare gli interventi sul patrimonio edilizio e tecnologico del SSN nell’ambito dei rispettivi territori regionale;
- Maggiore autonomia legislativa, amministrativa e organizzativa in materia di istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi.
Il Veneto chiede anche Maggiore autonomia in materia di gestione del personale del SSN, inclusa la regolamentazione dell’attività libero-professionale e la facoltà, in sede di contrattazione integrativa collettiva, di prevedere per i dipendenti del SSN incentivi e misure di sostegno, anche avvalendosi di risorse aggiuntive regionali.
Sulla scorta delle ulteriori condizioni di autonomia richieste in materia di sanità, dalle Regioni Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, di cui quelle sopra indicate costituiscono un elenco non esaustivo, la fondazione Gimbe ha ritenuto nel suo Report n. 1/2023 con considerazioni pienamente condivisibili che l’attuazione delle maggiori autonomie richieste dalle Regioni con le migliori performance sanitarie amplificherebbe le diseguaglianze di un SSN, oggi universalistico ed equo solo sulla carta e i cui princìpi fondanti si sono già dissolti senza alcun ricorso all’autonomia differenziata, ma solo in ragione della competenza regionale concorrente in tema di tutela della salute, già determinata dalla riforma del Titolo V della Costituzione, approvata nel 2001. Il regionalismo differenziato, se attuato in materia di sanità, finirebbe per legittimare normativamente e in maniera irreversibile il divario tra Nord e Sud, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute.
CONCLUSIONI DI SINTESI.
La riforma del Titolo V della Costituzione approvata nel 2001 da una maggioranza politica di centro-sinistra è stata una pessima riforma, avendo causato un indebolimento dell’unità nazionale, attraverso un rafforzamento eccessivo del ruolo delle Regioni nei confronti dello Stato, nonché per avere garantito il principio di uguaglianza dei cittadini italiani rispetto alla fruizione di diritti civili e sociali, solo in relazione ad una soglia minima di base, legittimando oltre quella soglia, una diseguaglianza delle prestazioni concernenti tali diritti. In materia di diritto alla salute, la riforma costituzionale, ampliando la competenza delle Regioni a tutta “la tutela della salute” ha posto le premesse per una progressiva regionalizzazione della sanità e l’affermarsi di diversi livelli qualitativi delle prestazioni sanitarie fra Regione e Regione, senza che lo Stato sia riuscito a svolgere efficacemente la funzione di salvaguardia dei livelli essenziali di assistenza, che lo stesso avrebbe dovuto e dovrebbe garantire in modo uniforme ai cittadini italiani su tutto il territorio nazionale. Il sistema sanitario italiano è quindi caratterizzato da notevoli diseguaglianze regionali, con un forte divario fra le Regioni del nord e le regioni del centro-sud, sicché il Servizio Sanitario nazionale ha perso i suoi connotati di equità ed universalismo, già per effetto della riforma del Titolo V della Costituzione.
L’attuazione del cosiddetto regionalismo differenziato, previsto anch’esso dalla riforma costituzionale del 2001, mediante l’approvazione del comma 3° dell’art. 116 della Costituzione, consistente nell’attribuzione con legge alle singole Regioni, e sulla base di intese fra lo stato e le singole Regioni di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in alcune o tutte le materie che al momento costituiscono oggetto di una potestà legislativa concorrente fra Stato e Regioni (fra cui la sanità ) nonché sulle materie dell’organizzazione della giustizia di pace, delle norme generali sull’istruzione, della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, attualmente oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato, costituirebbe un colpo di piccone all’unità nazionale, determinando un quadro dei rapporti istituzionali fra Stato e Regioni disordinato e confuso, in quanto sarebbe disomogeneo e potenzialmente variabile da regione a regione il riparto della potestà legislativa fra Stato e Regione nei vari territori delle singole Regioni. Tutte le 20 Regioni italiane potrebbero tutte godere di un’autonomia speciale, contrariamente all’indirizzo dei padri costituenti del 1948 che avevano attribuito l’autonomia speciale a sole 5 Regioni, in virtù di specifiche ragioni storiche, geografiche, di tutela di minoranze linguistiche.
Il disegno di legge Calderoli contenente disposizioni di attuazione del regionalismo differenziato di cui all’art. 116, comma 3, della Costituzione, intende attuare il regionalismo differenziato con caratteristiche di temporaneità delle intese fra Stato e singole Regioni, di rinegoziabilità delle stesse con possibilità di ulteriore ampliamento o riduzione della sfera di maggiore autonomia inizialmente pattuita, con possibilità financo di cessazione della maggiore autonomia pattuita molto prima della scadenza del termine finale dell’intesa, di recedibilità dalle intese, previa disdetta da comunicarsi 12 mesi prima della scadenza prevista, il tutto secondo una logica di convenienza egoistico-territoriale delle singole Regioni. L’eventuale approvazione del progetto di legge Calderoli costituirebbe un ulteriore colpo di piccone all’unità nazionale, rendendo il riparto della potestà legislativa e delle competenze fra Stato e Regioni non solo disomogeneo fra Stato e singole Regioni, il che è una caratteristica di per sé del regionalismo differenziato, ma anche soggetto a continue variazioni nel tempo, rendendo il quadro dei rapporti istituzionali fra Stato e singole Regioni caotico, incerto e confuso.
In materia di sanità, l’attuazione del regionalismo differenziato amplificherebbe le diseguaglianze regionali nella erogazione delle prestazioni a tutela del diritto alla salute, finirebbe per legittimare normativamente e in maniera irreversibile il divario di qualità del servizio sanitario tra regioni del Nord e regioni del centro- Sud, con ulteriore colpo al Servizio sanitario nazionale, con compromissione del principio di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute, già fortemente indebolito dalla riforma nel 2001 del Titolo V della Costituzione.
Sciacca, 3.11.2023
il presidente del Centro Studi De Gasperi
Con sede in Sciacca
Avv. Stefano Antonio Scaduto
[1] La definizione del diritto dei cittadini italiani alla mobilità sanitaria interregionale è tratta dal Report Osservatorio GIMBE n. 1/2023.
[2] Si tratta delle seguenti Regioni: Lazio, Abruzzo, Campania, Molise, Sicilia, Calabria, Puglia, di cui due, Molise e Calabria sono anche sottoposte a commissariamento.
[3] Editoriale dal titolo “ Lo Stato, l’autonomia, le Regioni e il bilancio da fare” di Ernesto Galli Della Loggia in Corriere della Sera del 23 maggio 2023.